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Stefano Soriani - Ecoturismo, Portualità e certificazione ambientale in Sardegna - Navigazione, portualità e protezione dell’ambiente marino e costiero  (Draft)

Il contributo considera i principali aspetti evolutivi della portualità (1) e della navigazione (2), richiamandone le principali dimensioni economiche, ambientali e territoriali coinvolte. L’attenzione è anche rivolta a chiarire possibili approcci di gestione, con un riferimento conclusivo all’importanza del dibattito sull’ICZM (Gestione integrata della zona costiera) (3).

  1. PORTUALITA’

1.1  Il contesto di riferimento: globalizzazione, dinamismo geoeconomico e cambiamenti strutturali che investono la funzione portuale, con conseguenze per il rapporto porto-economia locale e regionale. Implicazioni per la policy portuale.

  1. a) Globalizzazione, dinamismo geoeconomico

La globalizzazione delle economie e il dinamismo geoeconomico degli anni più recenti aprono nuovi mercati alla competizione economica e al trasporto; ciò stimola processi di riorganizzazione dell’industria del trasporto marittimo e continentale, l’emergere di nuove logiche di organizzazione delle rotte e una maggiore incertezza nella direzione dei flussi. Importanza dei cambiamenti che coinvolgono il Mediterraneo 

Rilevanza.

Si tratta di temi importanti rispetto al tema della pianificazione portuale e dell’espansione portuale: quanti nuovi terminal – investimenti pubblici/consumo di risorse ambientali rischiano di restare sottoutilizzati?  (Rincorsa all’hub…)

Aumenta la complessità del mercato: le infrastrutture sono importanti, aumenta però il ruolo della ‘politica estera’ degli enti di governo e cambia la natura della policy portuale.

  1. b) Ristrutturazione dell’industria marittima e ‘funzione servente’ dei porti, strutturazione di reti

Natura globale dei processi di ristrutturazione che investono il settore dei trasporti marittimi (fusioni, accordi informali, partnership strategiche tra le grandi linee di navigazione). Formazione di costellazioni di imprese multimodali, grazie ancora ad accordi, partnership strategiche tra linee di navigazione e grandi operatori del trasporto e della distribuzione continentale. Definizione di nuove rotte, processo di trasformazione dei nodi del trasporto (siano essi marittimi o interni) in nodi di reti che co-producono un servizio, orientano i flussi, segmentano il contesto competitivo. La maggiore ‘libertà localizzativa’ delle attività di gestione materiale e immateriale delle merci e la crescente importanza dei nodi interni come poli di attrazione e riorganizzazione delle attività della distribuzione e della logistica; ciò modifica l’organizzazione dei mercati di riferimento dei porti e rende meno scontata la preferenza costiera nelle scelte localizzative delle attività

Rilevanza.

Crescente complessità della catena decisionale che orienta i flussi e la conseguente difficoltà per i porti di interpretare i segni del cambiamento e di pianificare correttamente la propria azione.

Sovrapposizione e instabilità degli spazi di influenza portuale, per gli effetti prodotti da containerizzazione e intermodalità Maggiore variabilità rispetto al passato dei traffici.

I porti rischiano di diventare sempre più ‘anelli deboli’ all’interno di catene decisionali che possono concentrare valore aggiunto, competenze qualificate, sapienze organizzative altrove e in capo ad altri soggetti (o reti di soggetti): essere, in sostanza, nodi (perché hanno la banchina e lo spazio) efficienti del ciclo ma non attori consapevoli della sua strutturazione.

Nuove approcci di mercato nella policy portuale.

  1. c) Cambiamento della policy portuale

Diventa sempre più importante la capacità di saldare, attraverso processi di innovazione organizzativa e approcci proattivi, le opportunità che il mercato apre con il quadro degli asset locali disponibili o realisticamente attivabili[1].

Le organizzazioni portuali saranno chiamate nel futuro a valutare con sempre maggiore attenzione la posizione del porto rispetto ai diversi mercati e alle diverse scale, attraverso l’analisi dei punti di forza e di debolezza della struttura (infrastrutture, organizzazione, caratteristiche del business environment e grado e tipologia di apertura all’esterno, vincoli territoriali e condizioni del clima sociale, ecc.), l’evoluzione degli scenari di opportunità, gli obiettivi realistici perseguibili, gli stakeholder più significativi per il loro raggiungimento, le forme più opportune (anche innovative, attraverso il maggior coinvolgimento dei business group e community group in forum e practical exercise) di ricomposizione dei potenziali conflitti e di maturazione di nuovi approcci organizzativi.

Un’attenta analisi delle condizioni di mercato e l’identificazione e condivisione (alla scala più appropriata, che non necessariamente implica privilegiare rapporti basati sulla prossimità o contiguità) di obiettivi di sviluppo realistici costituiranno fattori sempre più importanti a seconda della misura in cui ci si allontanerà da un sistema di distribuzione pubblico delle risorse finanziarie per approdare a forme di finanziamento misto (pubblico/privato) delle infrastrutture su base territoriale (Nord/Sud Europa).

La complessità del contesto rende sempre meno adeguato uno stile di policy basato sul tradizionale modello reattivo (adattarsi ai cambiamenti del mercato attraverso aggiustamenti organizzativi di breve periodo, oppure modificando la propria offerta infrastrutturale assumendo che nel futuro troveranno conferma le tendenze passate). Anche per il mondo portuale sembra  aprirsi una fase di difficile ricerca di nuovi stili di policy, basati sull’identificazione e promozione di obiettivi strategici, frutto di un’analisi della posizione del porto nei diversi mercati e alle diverse scale, che sappiano guidare l’azione del ‘sistema porto’, sia rispetto agli aspetti gestionali-operativi, sia rispetto al suo orientamento verso l’esterno.

  1. d) Impatti economici

Unitizzazione e intermodalità hanno modificato natura e intensità degli impatti economici dell’attività portuale. I benefici economici delle strutture portuali per le comunità che le ospitano si sono generalmente ridotti, la loro scala spaziale si è fatta sempre più articolata e sfumata. Il comportamento localizzativo delle attività di gestione materiale e immateriale della merce ha assunto nuovi e ad un tempo inaspettati gradi di libertà.

Rilevanza.

Maggiore attenzione degli enti di governo delle strutture portuali all’obiettivo di attrarre nuove attività, legate alla distribuzione fisica delle merci o comunque connesse alle attività di retroporto (distripark)

Maggiore attenzione degli enti di governo delle strutture portuali, a seconda del respiro del quadro normativo dei diversi contesti geografici, come veri e propri land developer nei progetti di utilizzazione di aree portuali per fini non portuali.

Obiettivo generale: fare del porto un luogo che non viene semplicemente attraversato (obiettivo tanto più critico quanto più forti sono i condizionamenti spaziali e più aspro è il confronto tra usi diversi). Esempio di Gioia Tauro.

Obiettivo di fare dei porti dei poli di attrazione delle attività più qualificate di gestione del ciclo e delle attività legate alla distribuzione e alla logistica delle merci: non limitarsi ad essere un nodo, pur efficiente dal punto di vista operativo, di una rete, ma cercare di qualificarsi come polo di nuovo sviluppo economico e come attore nella strutturazione e nell’orientamento delle reti.

Alla riduzione degli effetti economici positivi per le comunità che ospitano i porti, si affiancano benefici che si distribuiscono lungo tutta la catena logistica e impatti territoriali e ambientali localmente concentrati.

1.2. Poste territoriali in gioco

I porti trovano la ragione della loro esistenza e le logiche del loro funzionamento a scale spaziali sempre meno coincidenti con quella locale, mentre gli effetti territoriali – traffico, congestione, incidentalità, problemi ambientali, ecc. – continuano invece prevalentemente a gravare sul contesto che li ospita.

Rilevanza.

La maggiore attenzione sociale ai quadri territoriali ed ambientali e la riduzione degli impatti positivi per i contesti sui quali la funzione portuale insiste può favorire la maturazione di un atteggiamento pubblico critico nei confronti delle attività portuali nonché la perdita di cultura marittima e/o di dinamismo imprenditoriale della business community.

Attivazione di  nuove leve economiche per imputare correttamente i costi del degrado ambientale, allo scopo di rendere conto dei costi che la comunità locale sopporta a causa della ‘funzione servente’ dei porti.

Maggiore importanza della qualità delle politiche e delle misure ambientali messe in atto dagli enti di governo delle strutture portuali, sia nel contesto della formazione di programmi di gestione della fascia costiera su base volontaria (con obiettivi negoziati), sia nell’esercizio delle loro funzioni ordinarie (leve economiche, gestione degli spazi, controlli, promozione di sistemi di gestione ambientale, ecc.).

In tal senso non mancano segnali positivi: in molte realtà le autorità portuali sono oggi attori dinamici della politica territoriale/ambientale (si pensi solo al caso dell’opzione della riutilizzazione delle aree obsolete e/o dismesse e al ruolo che queste misure possono avere nei programmi di gestione delle aree costiere). Sembra anche opportuno che forme innovative di partecipazione rispetto ai temi della pianificazione portuale (si pensi al caso dei community group dell’esperienza canadese e nordamericana) e dei rapporti città-porto trovino più frequente applicazione[2]. 

1.3. Porti e ambiente costiero

Retrospettivamente, le tendenze generali sono state: ricerca di soglie di accessibilità nautica sempre maggiori e ‘linearizzazione’ canali; saldatura tra attività di banchina e prima trasformazione industriale; rincorsa all’espansione portuale (soprattutto su coste basse) per industria e container.

Compromissione ambientale: per decenni oggetto di scarsa (quando non di nessuna) considerazione, sia per le condizioni del clima sociale e culturale, che vedeva nella crescita economica l’obiettivo prioritario,  sia per la grande capacità delle attività portuali e industriali marittime di promuovere lo sviluppo economico delle regioni costiere.

Negli ultimi decenni: nuove conoscenze sulle complesse dinamiche ecologiche costiere (ad esempio, relative alle zone umide e alla loro importanza ecologica); minore capacità delle attività portuali ed industriali di sostenere occupazione e reddito; crescente competizione tra attività economiche per l’uso del territorio costiero (turismo, nelle sue diverse forme per esempio); emergere di un forte movimento ambientalista e domanda di protezione

Oggi: si riconoscono nuove emergenze: dragaggio dei canali e gestione fanghi contaminati; espansione portuale (logistica/distripark e nuovi hub: 2000-….) e consumo di risorse (zone umide, ecc.); bonifiche e gestione del ‘debito tossico’; inquinamento legato a trasporto e congestione.

Rilevanza.

La situazione è radicalmente cambiata, ponendo al centro del dibattito scientifico e politico il tema delle relazioni tra porti e ambiente costiero.

La natura degli impatti sta cambiando.

Importanza dei conflitti tra usi mediati dalla qualità ambientale e della capacità di gestirli.

La capacità di gestire il problema ambientale sta assumendo un ruolo strategico nella competizione tra porti 

 

1.4.Le risposte della policy portuale: dal conflitto alla cooperazione?

A partire dagli anni Settanta le tematiche ambientali hanno profondamente condizionato la vita dei porti, soprattutto nei siti più delicati, imponendo spesso l’adozione, da parte dei responsabili della policy portuale, di approcci ‘difensivi’ al mutato contesto sociale[3].

Molti programmi di espansione delle infrastrutture portuali sono stati prima posposti e poi definitivamente accantonati.

Negli anni più recenti, tendenze generali (di cui c’è evidenza nella policy portuale): sottolineatura della necessità di trovare  – nel mercato, nella tecnologia e in nuovi modelli di governance – le opportunità per nuovi sentieri di sviluppo economico  compatibili; maggiore articolazione dei livelli della politica ambientale (sempre meno legata al classico modello top-down basato sulla scala nazionale e sempre più orientata alla collaborazione, su base territoriale,  tra diversi soggetti pubblici e privati).

Rilevanza.

Sta (faticosamente) emergendo (anche per necessità) un approccio maggiormente improntato alla cooperazione piuttosto che alla contrapposizione e alla prioritizzazione dei diversi obiettivi ‘settoriali’.

Autorità portuali (o gli enti di governo e gestione del ‘sistema porto’): assumono sempre più importanti funzioni di politica territoriale (ricerca di un maggior coordinamento tra livelli e strumenti diversi della pianificazione urbanistica, procedure di valutazione dell’impatto ambientale delle grandi infrastrutture o di VAS, definizione e realizzazione di misure di mitigazione [per gli impatti sul paesaggio]), di restauro ambientale e «ri-naturalizzazione». Queste funzioni stanno diventando sempre più centrali, e non più residuali, nel quadro della loro attività di ‘orientamento politico- strategico’.

Il mondo portuale (terminalisti e altre imprese portuali) e della navigazione si sta muovendo nella direzione di adottare nuovi strumenti di monitoraggio degli effetti ambientali dell’attività portuale, nonché nuovi sistemi di gestione ambientale (si pensi a ECOPORT  2, certificazioni ambientali). Le organizzazioni d’impresa stanno interiorizzando sempre di più la dimensione ambientale.

Rispetto a questo contesto importanza dei processi di internazionalizzazione delle società terminaliste.

  1. NAVIGAZIONE

2.1 Natura degli impatti

Tradizionalmente si concepiva l’inquinamento derivato dalle operazioni di navigazione principalmente come legato ad eventi catastrofici. In realtà le problematiche ambientali legate alla navigazione coprono un ampio spettro di diverse azioni inquinanti.

Molte di queste situazioni inquinanti sono comuni anche alle attività legate all’entroterra (land based) (in particolare potremmo considerare la produzione di reflui e rifiuti, l’emissione di gas); altre, invece, sono identificabili ad alcuni contributi specifici.

Le considerazioni che seguono saranno perlopiù limitate a effetti inquinanti derivanti dalla fase di navigazione senza contare effetti che possono derivare da altri momenti quali produzione o smaltimento finale di un’imbarcazione. A tal proposito gli studi sul ciclo di vita di una nave concordano nel sottolineare come sia proprio la fase d’uso a generare i maggiori impatti ambientali e dunque a meritare la maggior attenzione.

2.2 Emissioni in aria 

Gas di scarico

L’emissione di gas di scarico dovuti ai processi combustivi che avvengono nei motori (alimentati quasi esclusivamente a gasolio) sono certamente un interesse primario a livello ambientale. Tali emissioni si compongono principalmente di: azoto (N2), ossigeno (O2), biossido di carbonio (CO2), vapore acqueo, con presenza anche dei rispettivi ossidi, ossia ossidi di azoto NOX, ossidi di zolfo SOX; sono presenti inoltre idrocarburi incombusti, particolato (PM2,5, PM10) nonché tracce di composti organici, quali idrocarburi policiclici aromatici, diossine e metalli pesanti

Detti composti hanno valenze ambientali molto diverse; il NO2, ad esempio, colpisce principalmente gli esseri viventi producendo problemi respiratori e la vegetazione e gli ecosistemi in genere, dando un forte contributo ai problemi di acidificazione. Gli altri ossidi oltre a comportare anch’essi effetti respiratori sono responsabili assieme a altri tipi di composti, i composti organici volatili (VOCs), della formazione di ozono negli strati troposferici, ossia nella parte bassa dell’atmosfera in cui si svolge la vita, comportando danni ad esseri viventi, coltivazioni e vegetazione in genere. Il monossido e il biossido di carbonio possono provocare problemi respiratori e com’è noto sono gas serra.

Gli ossidi di zolfo sono derivati dalla combustione dello zolfo, la cui presenza si riscontra nei carburanti in uso. Sono anch’essi responsabili dei processi di acidificazione dato che facilmente danno luogo ad acido solforico, motivo per cui arrecano anche pesanti danni ai manufatti. A livello di esseri viventi hanno effetti sugli apparati respiratori e condizionano la sopravvivenza dei vegetali.

Il particolato è, invece una finissima porzione di sostanze organiche ed inorganiche, rappresentati da quote di numerosi minerali polverizzati, carbonio elementare più una certa quantità di materiale incombusti come idrocarburi e frazioni di oli lubrificanti. Tali particelle sono capaci di “ospitare” sensibili quantità di metalli pesanti, nonché la capacità di penetrare le difese fisiche delle nostre vie respiratorie. Gli effetti di tali componenti inquinanti sono ancora oggetto d’indagine, anche perché la loro composizione e di conseguenza i loro effetti possono essere molto variabili; non si esclude addirittura che oltre a problemi respiratori possano derivare rischi di tossicità, di cancerogenesi e mutagenesi.

Oltre a quelli citati che costituiscono la frazione più grande degli inquinanti presenti, esistono una serie di microinquinanti che a dispetto della ridotta percentuale con cui occorrono nei gas di scarico, producono elevatissimi rischi ambientali. È il caso degli IPA e composti organici (diossine, furani e PCB) così come dei metalli pesanti. I rischi in questo caso sono da relazionare alla cancerogenesi e mutagenesi, nonché all’elevatissima tossicità.

A fine di capire quali siano le dimensioni relative delle emissioni per singoli composti organici, si rimanda alla tabella che segue, relativa ad un caso specifico di navigazione per trasporto passeggeri per un tragitto di 160 Km (riportato in A. Magerholm Fet, O. Michelsen, T. Johnsen, 2000):

Elenco delle principali emissioni dovute ad un trasporto passeggeri corrispondente ad una navigazione di 160 Km. (Fonte: A. Magerholm Fet, O. Michelsen, T. Johnsen, Environmental performance of transportation – a comparative study, IØT-Report nr 3/2000) 

In particolare si può osservare come il settore marino sia responsabile, a livello globale, del 2% delle emissioni complessive (rilasciate principalmente nell’emisfero nord) di CO2, del 10-15% per NOX e 4-6% del SOX (Reynolds 2003) e in particolare come studi condotti su sistemi di trasporto alternativi indichino quello navale come il migliore dal punto di vista delle performance ambientali (A. Magerholm Fet, O. Michelsen, T. Johnsen, 2000). Si riporta, a tal proposito in figura seguente, L’esempio relativo alla situazione nell’Unione Europea, legata alle emissioni di NOX comparate tra diverse metodologie di trasporto.

Emissioni specifiche di NOX per tipi diversi di trasporto (EU 15). (Fonte: EEA 2001)

Meccanismi per il controllo delle emissioni

I tentativi di riduzione delle emissioni si sono prevalentemente concentrati sugli ossidi di zolfo e di azoto con risultati che pur proponibili in termini di beneficio ambientali sono ancora largamente dipendenti dagli elevati costi che è necessario sopportare per la loro introduzione.

In particolare una strategia già in parte percorsa è l’utilizzo di carburanti a minor contenuto di zolfo (1 % rispetto alla media che si attesta sul 2,5 %) che però rimangono una percentuale minoritaria nel quadro globale dei carburanti utilizzati, a motivo dei costi elevati (50 -90 € in più a tonnellata rispetto al carburante tradizionale nel 2002 [FC Ship final Report, 2004]).

Lo stesso si può dire per tecniche di “lavaggio” (con particolari soluzioni tecniche) dei gas di scarico con acqua di mare, soluzione efficace stante l’affinità del SO2 per l’ambiente acquatico, andando così a formare solfato e acido solforico diluito. A parte la necessità di scaricare a mare questi ultimi due prodotti, la tecnica suddetta comporta il problema della gestione di altre componenti principalmente i microinquinanti cui si è fatto riferimento in precedenza. Per quanto riguarda l’azoto invece le soluzioni sono ancora più complesse e riferite, da un lato, ad una diversa progettazione dei motori che comporti una combustione più completa, e dall’altro, il trattamento dei gas con speciali filtri, la cui adozione è condizionata dai costi e dalle incognite tecniche che questa soluzione ancora pone.

Sono inoltre allo studio, con una soglia di fattibilità sempre più vicina alla realizzazione, imbarcazioni (soprattutto navi passeggeri) alimentate con fuel cells, a tal proposito sono già stati condotti studi di Life Cycle Analisis  comparativi tra i suddetti motori e le tecnologie tradizionali con risultati estremamente positivi. Tuttavia i costi da sostenere e i problemi di sicurezza relativi allo stoccaggio dell’idrogeno, fanno intendere che tale tecnologia dovrà ancora attendere una decina d’anni per essere introdotta in settori come quello crocieristico e destinate ad un pubblico ad elevata sensibilità ambientale.

A scopo informativo la figura che segue rende conto dei vantaggi ambientali della propulsione ad idrogeno (H2), inventariando le quantità di emissione per singolo inquinante confrontandole con un normale motore diesel (HFO) (riportato in M. Altman, M. Weinberg, W. Weindorf, LCA of fuel cell ships, FCSHIP, final report july 2004)

 

 

g/WhHFO#

g/WhH2

NOX

5,11

0,0068

PM da combustibile con 3,5% di S

0,68

0,0000

PM da combustibile con 1% di S

0,16

 

NMVOC*

0,21

0,0033

CO

0,66

0,0135

# le unità di misura fanno riferimento a grammi di inquinante prodotto per singolo KWh di potenza generato da motori rispettivamente: HFO = diesel; H2 = fuel cells

*Non Methane Volatile Organic Compounds 

Agenti refrigeranti ed antincendio

Clorofluorocarburi (CFC), Idroclorofluorocarburi (HCFC) sono stati per lungo tempo molto usati nell’industria navale come refrigeranti ed isolanti, così come per gli Halons (Bromofluorocarburi) usati invece come isolanti ignifughi o come agenti estinguenti negli estintori portatili. Questi componenti sono attualmente banditi per i loro elevati valori di GWP (greenhouse warming potential) e ODP (ozone depletion potential), ossia perché tra i principali e più noti composti responsabili di effetto serra e assottigliamento dello strato di ozono atmosferico. Le tre tipologie di composti individuano altrettante famiglie di sostanze che contano ciascuna decine di componenti, alcuni dei quali sono ancora in uso in molte parti del mondo, e spesso il loro utilizzo è ancora accettato nelle flotte già presenti sul mercato. Il settore navale è stato responsabile nel 1990 del 1 – 3 % delle emissioni globali di CFC e di circa il 10% delle emissioni globali di Halons (Reynolds 2003).

VOC – composti organici volatili

Le emissioni di composti organici volatili (VOC) dalle navi cisterna di petrolio e composti chimici hanno fatto registrare forti preoccupazioni negli anni a seguito a seguito del ruolo che giocano (simile a quello dei già citati NOX) nei meccanismi di formazione di ossidanti fofochimici, quali ad esempio, l’ozono a livello troposferico. Si stima che il settore navale emetta detti composti principalmente nel corso delle operazioni di gestione e trasporto del greggio e dei derivati del petrolio, per cui si ritiene che per ottenere benefici ambientali sia necessario introdurre forme di intercettazione e riduzione dei vapori dovuti a tali fasi procedurali. 

2.3 Scarichi in acqua 

Acque di sentina

I problemi ambientali derivanti dall’utilizzo dell’acqua di mare sono piuttosto importanti e riguardano: la possibilità di imbarcare acqua inquinata che viene poi rilasciata in zone con acque qualitativamente migliori; il trasferimento con lo stesso principio sopra descritto di organismi (o microrganismi) viventi da una località ad un’altra.

Quest’ultimo problema implica complicazioni piuttosto serie, in quanto se le condizioni nel porto di scarico fossero adatte, gli organismi così introdotti potrebbero sopravvivere e moltiplicarsi, comportando situazioni di competizione per le risorse e stress alle comunità originarie di quell’ecosistema.

Tale pratica minaccia fortemente, dunque, la struttura degli ecosistemi naturali nonché la biodiversità. Com’è intuibile questo problema ecologico ha un risvolto economico ed anche piuttosto serio, nel senso che, a livello globale, sono registrati casi in cui il controllo delle specie così introdotte può raggiungere anche i 400 - 500 milioni di dollari l’anno, ed altri in cui l’introduzione di una specie predatrice ha messo in crisi l’economia legata alla pesca. Questa pratica ha inoltre causato anche problemi di ordine sanitario.

Il problema è stato riconosciuto dagli organismi internazionali, tanto che sono state e sono tuttora, oggetto di discussione numerose misure di contenimento. L’unica mitigazione che sembra attualmente applicabile è quella di cambiare le acque una volta giunti al largo (mid ocean), laddove cioè minore è la presenza di specie acquatiche e più ardue le condizioni per sopravvivenza delle specie introdotte. Tuttavia questo può creare seri problemi di sicurezza per la navigazione, in quanto le navi non sono progettate per viaggiare senza acque di zavorra, e la procedura di svuotamento e  nuovo riempimento, soprattutto se associata a difficili condizioni meteomarine può determinare seri rischi.

Un’alternativa potrebbe essere rappresentata dalla creazione di un flusso continuo di acqua all’interno dei compartimenti di zavorra. Tuttavia permangono problemi non solo funzionali, dettati spesso dall’incapacità tecnologica di attuare tale soluzione, ma anche di sicurezza per la navigazione. La via più praticabile sembra dunque quella di ovviare al problema della acque di zavorra grazie a soluzioni ad hoc nei futuri processi di progettazione navale. Nel frattempo vengono studiate anche forme di disinfezione in porto prima del rilascio delle acque.

Vernici antifouling

Il problema, che implica una riduzione della velocità anche di 10 nodi ed un aumento dei consumi di circa il 20% (R. Fairman, C.D. Mead, W.P. Williams 1998), è noto da secoli e nel passato (ad esempio a Venezia ai tempi della Serenissima), veniva risolto lasciando le navi in acqua dolce per un tempo idoneo a consentire la naturale pulizia della nave. Gli orgasmi installati sul corpo dell’imbarcazione, essendo tipici di habitat marini, non erano in grado di sopravvivere alle mutate condizioni di salinità e temperatura.  Oggi la dimensione delle navi non consente più tali rimedi tanto che si è dovuto ricorrere alle suddette vernici principalmente a base di TBT (stagno tributile). Dagli anni settanta ha cominciato però ad essere legata la presenza di questo tossico con alcune disfunzioni occorsi ad un gran numero di organismi marini; in particolare all’ostrica del Pacifico (crassoterea gigas) causavano problemi di assottigliamento del guscio che ne minavano la sopravvivenza, ed altri molluschi soffrivano di fenomeni di imposex (R. Fairman, C.D. Mead, W.P. Williams 1998). Il danno non fu solo ecologico ma anche economico dal momento che, in molti paesi, furono messe in crisi soprattutto le industrie di allevamento, pesca e confezionamento delle ostriche.

Attualmente tali composti altamente tossici anche a bassissime concentrazioni sono oggetto di stingenti osservazioni. Tuttavia le alternative, rintracciate perlopiù nell’adozione di moderne vernici meno tossiche (a base di rame  ma con effetti che rischiano di creare problemi di tossicità in altri ambiti) e prive di stagno, sono ritenute non soddisfacenti poiché implicano un aumento dei consumi di carburante nel corso della navigazione, con una conseguente emissione di 5 milioni di tonnellate di CO2 rispetto agli attuali standard. L’unica soluzione a breve termine potrebbe essere la non applicazione di vernici e lo scrubbing periodico della chiglia con un notevole aggravio dei costi.

Petrolio

Gli sversamenti di petrolio dovuti ad incidenti occorsi a petroliere rivestono una quota marginale del petrolio che normalmente finisce in mare. In particolare la tabella che segue riporta come la maggior parte del petrolio immesso in ambiente marino sia dovuti a processi che hanno sede sulla terraferma. Quella riferite ad attività che avvengono in mare è per il 70–80% riferibile a rilasci nel corso di attività di normale gestione del petrolio (Reynoldos 2004).

sorgente

tonnellate

Percentuale relativa %

Attività entroterra/industria

1.175.000

50

Trasporti

564.000

24

Atmosferica

305.000

13

Naturale

258.500

11

Attività offshore

47.000

2

totale

2.350.000

100

 Distribuzione relativa degli scarichi a mare di petrolio nell’anno 1990. (fonte: Reynolds 2003)

Circa il 50 % delle emissioni dovute alle navi è derivato da perdite dei serbatoi del carburante e, soprattutto per le vecchie imbarcazioni a singolo scafo che usano gli stessi vani per il greggio e le acque di sentina, dal lavaggio delle cisterne (Reynolds 2004). Le principali emissioni, che danno chiaramente luogo a fenomeni cronici di inquinamento e tossicità, come evidenziato nella figura che segue relativamente al Mediterraneo, sono registrate ovviamente lungo le principali rotte del trasporto petrolifero.

   

Rotte ed attività legate all’industria petrolifera nel Mediterraneo

Localizzazione dei 268 allarmi e sversamenti accidentali di petrolio registrati nel Mediterraneo tra il 1977 e il 1995

Rotte del trasporto petrolifero nel Mediterraneo e conseguente localizzazione di sversamenti accidentali. (fonte: EEA 1999)

L’International Convention for the prevention of pollution from ships  (MARPOL 73/78) ha stabilito che le acque di sentina e di lavaggio (che devono raccogliere il più possibile anche le perdite accidentali, ad esempio dai motori) possano essere scaricate a terra o in mare a seguito di una procedura di filtrazione (separatore acqua-petrolio), atta a ridurre il tenore di petrolio e derivati fino ad un massimo di 15 ppm.

Per quanto riguarda i fanghi residui dalla purificazione del petrolio, si è convenuto che fossero stoccati in nave fino a terra e quindi rilasciati. Altre e più difficili procedure nel lavaggio delle cisterne e l’introduzione di tecnologie innovative sono allo studio per limitare il problema, che rimane comunque di difficile quantificazione e controllo.

Rifiuti

Questa nozione comprende liquami (acque nere), acqua di rifiuto da uso domestico (acque grigie), rifiuti derivati da petrolio (trattati sopra) e rifiuti generici che possono comprendere materiali di uso comune come plastica, carta , vetro, imballaggi, metalli, residui di cibo e scarti, medicinali e quant’altro possa essere compreso nella normale definizione di rifiuto derivante dalla vita quotidiana di una persona.

Nonostante sia in aumento lo scarico a terra di molti dei suddetti rifiuti (successivamente destinati a trattamento) e sebbene ormai si preveda generalmente allo stoccaggio o anche incenerimento a bordo, restano ancora molte perplessità sulla gestione degli stessi e degli impatti che possono  derivare. Ad esempio le acque grigie possono essere liberamente scaricate a mare, così come le acque nere, anche se oltre le 12 miglia nautiche (19 Km) dalla costa (entro le 4 miglia è vietato lo scarico anche a seguito di disinfezione). Il problema è dunque relativo all’aumento di BOD (Biological oxigen demand) che si viene così a creare, così come all’aggiunta in ambiente di nitrati e fosfati, noti per essere agenti eutrofizzanti. A questo proposito sono segnalate anche possibili infezioni derivanti da batteri fecali ed intestinali (Escherichia Coli).

I risultati migliori sono stati ottenuti nel campo della crocieristica che inizia ad attivare sistemi di raccolta e tecnologie tese a minimizzare gli effetti ambientali.

2.4 Meccanismi di controllo alternativi (o complementari?) ai tradizionali sistemi ldi regolazione pubblica

Anche nel settore navale stanno prendendo sempre più piede i sistemi certificativi, sospinti anche dal fatto che molti porti concedono sgravi economici a navi e compagnie che partecipino a sistemi di certificazione.

Un importante esempio è il Green Award olandese promosso in cooperazione dal Ministero Olandese dei Trasporti e dal Porto di Rotterdam (Reynolds 2004, P.L. Lombard, A. Malocchi 2000), ma in altre realtà portuali sono previste forme di tassazione differenziate sulla base delle prestazioni ambientali o altre diverse forme di incentivi. Ancora una volta i moderni strumenti di gestione ambientale (norme ISO ed altre) possono risultare decisivi nel miglioramento della prestazioni ambientali.

Infine, importanza della formazione in campo marittimo (si pensi al tema dell’istituzione delle accademie mercantili) e dei supporti di gestione informatica dei traffici e di scambio delle informazioni tra porti.

Il tema dei rapporti tra navigazione e ambiente marino e costiero resta però di difficile impostazione, per vari motivi:

  • difficoltà di controllo
  • stato del settore (registri e obsolescenza, ‘usato’)
  • dinamiche (partnership, alleanze e ‘filiere’ del servizio)
  • competizione tra porti e quindi attitudine ‘benevola’ per il mondo marittimo
  • difficoltà di controllare le convenzioni IMO
  • difficoltà di promuovere sistemi comuni di circolazione delle informazioni relative al traffico al largo.

Nonostante questo il tema resta centrale, soprattutto nelle acque costiere, per il confronto tra usi (pesca, turismo, protezione).

Importanti ruolo delle autorità portuali: esse mediano tra mondo marittimo (e quindi logica/punto di vista del mercato globale) e quella del territorio. Problema dell’orientamento della politica delle autorità portuali e, in Italia, della composizione degli interessi negli organi di governo. Va poi promossa una cultura della cooperazione in campo ambientale, supportate da politiche che evitino distorsioni nella concorrenza.

  1. GESTIONE INTEGRATA DELLA ZONA COSTIERA (ICZM)

Portualità e navigazione interagiscano in maniera estremamente complessa con gli altri usi del mare, soprattutto nei mari semichiusi e nelle aree costiere. E’ perciò giustificato richiamare alcuni elementi della discussione sull’ICZM (Gestione Integrata della Zona Costiera).

3.1 ICZM: lineamenti essenziali

Il tema della gestione della zona costiera ha trovato nel dibattito sullo sviluppo sostenibile un suo importante stimolo e criterio ordinatore. In particolare, il capitolo 17 dell’Agenda 21 ha fornito i principi guida per affrontare il tema della gestione in una prospettiva olistica, volta a favorire forme di sviluppo costiero sostenibile[4].

Va anche ricordato come il dibattito sull’Agenda 21 e  le iniziative che sono state promosse per cercare di renderla operativa abbiano accompagnato, e per molti aspetti completato, un’evoluzione estremamente significativa del modo di intendere obiettivi e strumenti della gestione costiera[5].

Inizialmente, a partire dagli anni Settanta, il focus della gestione era centrato quasi esclusivamente su problemi locali, facilmente visibili e ben localizzati (ad esempio: degrado della costa per effetto dell’urbanizzazione; rischi associati all’estrazione di petrolio; riduzione degli stock di pesca; inquinamento urbano e industriale, eutrofizzazione delle acque costiere, ecc.); essa costituiva una risposta (sulla base di un approccio di tipo reattivo) a precise domande della popolazione, molto più attenta rispetto ai decenni precedenti ai temi ambientali (sempre più coperti dall’attenzione di comitati e media). I programmi che ne scaturivano si fondavano essenzialmente su una più severa e precisa legislazione sugli scarichi, maggiori controlli, maggiore enfasi sulla necessità di adottare nuove tecnologie.

Negli anni Ottanta e, in modo molto più compiuto nel decennio successivo, approcci e strumenti della gestione costiera hanno sostanzialmente riconosciuto la complessità del sistema costiero e perciò la necessità di riparare e prevenire i danni, gestire in modo sostenibile le risorse, favorire nuove forme di governo. E’ maturata, per questa via, una variegata ed estremamente ampia letteratura sulla gestione integrata delle zone costiere.

Le diverse definizioni mettono in evidenza aspetti in parte diversi, a seconda delle istituzioni coinvolte e dei relativi obiettivi. In ogni caso, questa può considerarsi una forma di pianificazione e gestione integrata delle risorse e degli ambienti costieri, basata sulle interconnessioni di natura fisica, socio-economica e politica tra i sistemi costieri che definiscono assieme la zona costiera.

Essa prende le mosse dal riconoscimento di un obiettivo di fondo: per gestire la fascia costiera, le sue risorse, i suoi problemi, le sue opportunità, è necessario superare il vecchio modo di pensare caratterizzato dalla competizione tra organizzazioni governative per la gestione del potere e delle risorse finanziarie, che si traduceva in politiche settoriali auto-referenziali, che spesso non approdavano a risultati in quanto contrastanti con altre politiche settoriali.

Essa si dovrebbe perciò fondare sulla pianificazione costiera (una pianificazione che non veda più nella linea di costa il suo limite ma che consideri anche le interconnessioni fisiche, economiche o politiche con il mare), sulla gestione di programmi generali e particolari, sull’educazione e sul coinvolgimento pubblico, sulla ricerca e sul monitoraggio, sull’implementazione, sulla valutazione dei risultati delle politiche[6]. 

Sulla base delle esperienze acquisite[7] il problema più importante da superare si dimostra essere quello dell’integrazione organizzativa: delineare e implementare un piano di gestione integrata, infatti, implica incidere sulle strutture organizzative ‘tradizionali’, che devono coordinarsi (al pari degli strumenti: pianificazione, permessi, finanziamenti, programmi di sviluppo, ecc.). Ciò può produrre resistenze da parte di strutture settoriali, poco inclini a cedere ‘poteri’ a nuovi enti di coordinamento e integrazione.

Per questo motivo la strada più frequentemente adottata è la creazione di una ‘agenzia’ o comitato interministeriale, con funzioni di coordinamento, indirizzo, guida, consultazione. Il passaggio cruciale sembra essere comunque quello di garantire e definire le tappe di un processo partecipativo, volto a mobilitare risorse economiche e umane locali, favorire identificazione, consenso e fiducia nel cambiamento[8].

Estremamente controverso è anche il tema della valutazione dell’efficacia dei progetti di ICZM.

La tendenza prevalente sembra essere quella di valutare i risultati degli sforzi (in termini di piani, di programmi, di permessi, di grado di coinvolgimento del pubblico, ecc.), mentre poca attenzione è prestata alla misura in cui i piani vengono poi implementati e, soprattutto, alla misura in cui i piani consentono il raggiungimento di obiettivi (economici ed ambientali). Un altro importante aspetto da richiamare è la generale assenza di valutazioni indipendenti[9].

3.2. Le esperienze ‘volontarie’

Enfasi crescente viene recentemente posta sui piani di gestione su base volontaria o informali (nella letteratura inglese i così detti non-statutory plans)[10]. La caratteristica essenziale di questi piani sta nel riconoscimento della inadeguatezza dei ‘sistemi obbligatori’ (statutory framework).

Viene perciò proposto un approccio di tipo volontario che porti al coinvolgimento degli attori privati nella definizione degli obiettivi e degli strumenti per raggiungerli.

L’obiettivo è quello di definire piani non obbligatori, basati sull’adesione volontaria, per la gestione della zona costiera, che tengano presente gli interessi esistenti[11] e siano in grado di fornire una chiave di lettura per interpretare i singoli progetti di sviluppo futuro, allo scopo di valorizzare le risorse (naturali e territoriali) della zona costiera.

Gli elementi distintivi di questo approccio sono i seguenti:

  • il focus dei piani è sia sulla conservazione dell’ambiente sia sullo sviluppo economico: da un lato, quindi, si vuole conservare e migliorare l’ambiente; dall’altro, si pone l’obiettivo della ‘rigenerazione’ dell’economia, facendo del sistema naturale un patrimonio, non un vincolo (ciò implica una forte sottolineatura dell’importanza dello sviluppo turistico, in forme compatibili).
  • La vastità delle aree coinvolte (secondo criteri fisici oppure giurisdizionali), l’elevato numero di usi che caratterizza le zone costiere dei paesi più sviluppati, l’esistenza di diverse competenze ‘vincolanti’ e soggetti ‘regolatori’ sono considerati fattori che rendono inopportuna la creazione di nuove strutture ‘formali’ (dotate cioè di nuovi compiti di regolazione).
  • Ne deriva un approccio ‘informale’ ai temi della gestione, basato essenzialmente sulla ricerca del consenso, sullo scambio di informazioni, sul tentativo di coinvolgere il maggior numero di attori.
  • Lo stile del piano/programma è promozionale e ispirato ai criteri del marketing territoriale: il piano/programma vuole ‘promuovere’ una visione del futuro[12], sulla quale aggregare consenso, con l’obiettivo di fare degli attori dei partner del processo di gestione stesso.

Generalmente i piani di questo tipo si articolano  in  obiettivi strategici (di largo respiro, ad esempio miglioramento della qualità dell’acqua) e di obiettivi particolari (rispetto all’acqua, passare, per esempio, dalla categoria C a quella B, e ciò dovrebbe ispirare le singole politiche di settore).

I seguenti elementi meritano una sottolineatura.

  • Questo approccio parte dal riconoscimento dell’impossibilità di adottare schemi ‘esaustivi’: soprattutto in zone costiere industrializzate, dove sono comunque presenti importanti elementi di naturalità, un piano di gestione dovrebbe considerare tantissimi fattori; ciò implicherebbe un processo lungo, costoso e porterebbe alcuni attori chiave ad aver sfiducia sul piano stesso, in quanto lesivo dei loro punti di vista e strategie; per questo motivo i piani informali assumono che il risultato finale non dipenda tanto dalla minuziosità e precisione del piano stesso, quanto dalla cooperazione tra attori, dal loro coordinamento, dalla condivisione di linee guida rispetto all’evoluzione futura.
  • Questi piani sono portatori di una visione ‘pragmatica’ ai temi della politica ambientale: l’idea di fondo è che gli strumenti regolatori sono scarsamente in grado di incidere positivamente, e che quindi nuovi sviluppi si possano perseguire mobilitando risorse (finanziarie, organizzative, umane) locali sulla base di progetti legittimati localmente.
  • Anche in questo caso mancano valutazioni affidabili sul grado di efficacia di questi piani/programmi.

Rischi di tale approccio

I principali rischi di tale approccio sono due:

  • L’implicita sottolineatura sul ‘pragmatismo’ e sulla necessità di ottenere consenso può portare ad un indebolimento del sistema di obiettivi ambientali; inoltre, lo stile generalmente promozionale di tali piani/programmi sostiene il dubbio che questi approcci si risolvano spesso in operazioni di green marketing, più che in iniziative di ri-orientamento complessivo del sistema territoriale.
  • La giusta attenzione alla scala locale/regionale (implicita nel concetto di visione e nella ricerca di un forte coinvolgimento degli attori nella definizione stessa dei programmi) non possa prescindere dalla necessità dell’adozione di una ‘strategia nazionale’, la sola in grado di valutare correttamente anche le implicazioni redistributive delle scelte di pianificazione o programmazione costiera.

Rilevanza/Problematiche.

La difficoltà di riferire ai settori della portualità e soprattutto della navigazione le argomentazioni appena richiamate sono evidenti, per l’intersezione tra le diverse scale (locale, regionale, nazionale, globale…) coinvolte. L’enfasi sull’importanza dell’esperienza dei ‘piani locali’ implicitamente riconosce la possibilità del contesto locale di interagire attivamente con le diverse  traiettorie economiche, di mercato e tecnologiche. Il rapporto tra territorio (infrastrutture, competenze, risorse, ecc.) e dinamiche del mercato del trasporto sono invece estremamente complesse: esiste un potere dei luoghi rispetto al potere dei flussi (è superfluo ricordare la natura intrinsecamente globale dell’industria del trasporto marittimo)?

Che rapporto esiste tra sistemi di regolazione ‘tradizionali’ (leggi, controlli, sanzioni) e nuovi strumenti partecipativi? I secondi funzionano meglio nei contesti dove i primi sono efficaci?

L’approccio di regolazione classico (convenzioni, direttive, accordi…) va certo approfondito e rafforzato. Utili, nei contesti più dinamici, possono essere i piani informali, per mobilitare risorse e coinvolgere attori nella definizione e promozione di obiettivi di miglioramento economico ed ambientale. In questa direzione, per gli elementi richiamati nel punto 2.4 il coinvolgimento delle autorità portuali (pur con una preliminare riflessione sulla composizione degli interessi che le caratterizzano) appare essenziale.

Promozione di round table ed esercizi pilota possono essere utili in quanto strumenti, se supportati da adeguate strategie di comunicazione e marketing (sulla base ad esempio delle caratteristiche del green award olandese), di coinvolgimento di attori del mondo della portualità e della navigazione.  Probabilmente il settore della crocieristica è oggi quello più sensibile alle tematiche in questione, anche per obiettive condizioni di segmentazione della domanda.

3.3. Coordinamento alla scala nazionale 

Sullo sfondo resta un punto essenziale: la formazione/promozione di visioni e la definizione di nuovi approcci ‘informali’ non possono prescindere da una strategia nazionale, che faccia propri i principi e gli obiettivi della gestione costiera a scala nazionale, identifichi per i diversi contesti territoriali le coastal issue strategiche[13], determini le modalità di reperimento dei fondi necessari per avviare la gestione integrata, raccomandi i criteri della collaborazione e dell’integrazione, promuova i principi dell’Agenda 21 e le modalità più efficaci per la loro traduzione operativa.

In questo quadro, va perciò sottolineata l’importanza della Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 30 maggio 2002 (2002/413/EC), riguardante l’adozione degli approcci e degli strumenti della gestione integrata della zona costiera in Europa: questa chiede agli stati membri di preparare un rapporto entro l’inizio del 2006, allo scopo di identificare lo ‘stato dell’arte’ in materia (attori principali, norme e istituzioni che influenzano la gestione costiera), promuovere strategie, identificare gli strumenti che gli stati ritengono più idonei, sulla base dei rispettivi contesti economici, politici, sociali e normativi,  per l’implementazione dei principi della gestione integrata.

A livello comunitario si riconosce perciò la necessità che intervenga il regolatore nazionale nella definizione del quadro concettuale e operativo entro il quale gli interventi a scala locale/regionale devono inserirsi.

Stefano Soriani

Dipartimento di Scienze ambientali, Università Ca’ Foscari di Venezia

IDEAS – Centro Interdipartimentale per lo studio delle Interazioni Dinamiche Economia Ambiente Società, Università Ca’ Foscari di Venezia

soriani@unive.it

Bibliografia essenziale

  1. Altman, M. Weinberg, W. Weindorf, LCA of fuel cell ships, FCSHIP, final report july 2004 available at: www.per.nl/search.
  2. H. Clark, “Coastal Zone Management for the new century”, in Ocean & Coastal Management, 1997, pp. 191-216.
  3. Clayton, T. O’Riordan, “Coastal processes and management”, in T. O’Riordan (ed.), Environmental Science for Environmental Management, Harlow, Longman, 1996, pp. 151-164.

CoastNet,  Partnership approaches to ICZM: a vision and action plan, London, CoastNet, 2003.

Department of Environment, Planning Policy Guidance 20: Coastal Planning, London,  Department of Environment, 1992.

EEA, State and pressure of the Marine and Coastal Mediterranean Environment, EEA Copenhagen 1999.

EEA, Paving the way for EU enlargement - Indicators of Transport and Environment Integration TERM 2002, EEA Copenhagen 2002.

EEA, TERM 2001 Indicator Tracking Transport and Environment Integration in the European Union, EEA Copenhagen 2001.

Estuary Project Group, Mersey Basin Campaign, Mersey Estuary Management Plan: Final Draft, Liverpool, University of Liverpool, Department of Civic Design, 1995.

  1. Fairman, C. D. Mead, W.P. Williams, Environmental Risk Assessment Approches, Experiences and Information Sources, EEA Enivronmental issues no.4, EEA Copenhagen, 1998.
  2. Kidd, “Planning for Estaury Resources: the Mersey Estuary Management Plan”, in Journal of Environmental Planning and Management, 1995, pp. 435-442.
  3. Kildow, “The Roots and Context of the Coastal Zone Movement”, in Coastal Management, 1997, pp. 231-264.
  4. L. Lombard, A. Malocchi, Navigazione e ambiente un confronto con i costi esterni delle altre modalità di trasporto, Milano, Franco Angeli, 2001.
  5. Magerholm Fet, O. Michelsen, T. Johnsen, Environmental performance of transportation – a comparative study, IØT-Report nr 3/2000 available at: www.pre.nl/search
  6. Reynolds, “Operational pollution from shipping: sources, environmental impact and global contribution”, in Shipping and Port in the XXI Century. Globalisation, Technological Change and Environment, D. Pinder and B. Slack (eds.), London, Routledge, 2004, pp. 233–255.
  7. Sorensen, “National and International Efforts at Integrated Coastal Management: Definitions, Achievements and Lessons”, in Coastal Management, 1997, pp. 3-41.
  8. Soriani, “Costa, mare e territorio: l’importanza della recente esperienza alto adriatica”, in L’articolazione territoriale dello spazio costiero. Il caso dell’Alto Adriatico, S. Soriani (ed.), Venezia, Editrice Cafoscarina, 2003, pp 8–41.
  9. Soriani, Porti, città e territorio costiero. Le dinamiche della sostenibilità, Bologna, Il Mulino, 2002.
  10. Soriani, “Port development and Implementation Challenger in Environmental management: the Case of Venice”, in Shipping and Port in the XXI Century. Globalisation, Technological Change and Environment, D. Pinder and B. Slack (eds.), London, Routledge, 2004, pp. 212 232.
  11. Vallega, “Integrated Coastal Area Management in the Framework of the UNEP Regional Seas programme: The Lesson from the Mediterranean”, in Coastal Management, 1998, pp. 245-280.
  12. Vallega, Fundamentals of Integrated Coastal Management, Dordrecht, Kluwer Academic Publisher, 1999.
  13. Woolridge and T. Stojanovic, “Integrated Environmental Management of Ports and Harbours: the European Experience”, in Shipping and Port in the XXI Century. Globalisation, Technological Change and Environment, D. Pinder and B. Slack (eds.), London, Routledge, 2004, pp. 191–211.

[1] Questi possono essere di diverso tipo, per esempio: posizione geografica (si pensi alla questione degli hub nel Mediterraneo), risorse territoriali ben specificate, competenze tecnologiche e organizzative, caratteristiche economiche dell’area, vicinanza con altri nodi del trasporto con i quali stabilire relazioni sinergiche, ecc.

[2] Questa questione trova la sua giustificazione ricordando come dai due mercati dello spazio portuale (quello di destinazione d’uso e soprattutto quello di assegnazione tra operatori) derivi una generale sottovalutazione dello spazio portuale: è la circostanza per la quale lo spazio viene pagato poco e gli effetti negativi  (territoriali, ambientali, costi-opportunità) della portualità restano non tradotti monetariamente, a fondare e legittimare la richiesta di processi partecipativi più ampi.

[3] Si pensi al riguardo agli studi di impatto portuale (PIS).

[4] Il capitolo 17 riguarda la “Protezione degli oceani, di tutti i tipi di mare, compresi i mari chiusi e semichiusi, e delle aree costiere, e la protezione, l’uso razionale e lo sviluppo delle loro risorse viventi”. La gestione integrata viene indicata come una delle leve strategiche per lo sviluppo sostenibile delle zone costiere. Questo documento ha ispirato le linee guida in materia di gestione integrata che sono state recentemente prodotte dalle Nazioni Unite e da altre Organizzazioni.

[5] In termini di gestione costiera l’esperienza pioniera è quella degli Stati Uniti, con l’emanazione, nel 1972, del Coastal Zone Management Act.

[6] Le fasi principali sono riconosciute essere le seguenti: definizione dei problemi e delle opportunità presenti (le così dette coastal issue); identificazione degli attori chiave (stakeholder), cioè cittadini, imprese, enti pubblici, comitati, ecc., che sono influenzati dal problema e dalle possibili decisioni e misure; ridefinizione organizzativa allo scopo di mettere assieme esperti e strutture di governo; comunicazione e circolazione delle informazioni; sessioni di brainstorming per sviluppare soluzioni; prioritizzazione delle soluzioni; ricerca del consenso e implementazione. E’ evidente come un processo di questo tipo richieda un difficilissimo sforzo di coordinamento tra politiche (ed organizzazioni) settoriali che può spingersi fino a forme di integrazione orizzontale (tra settori) e verticale (i diversi livelli di governo) tra i diversi stakeholder la cui azione influenza  quantità e qualità delle risorse e degli ambienti costieri.

In generale, sulla base dei principi dell’Agenda 21 e dei piani/programmi redatti nel corso degli anni Novanta, aspetti  chiave della gestione integrata sono riconosciuti essere i seguenti: l’adozione del principio di conservazione, attraverso l’identificazione di aree di speciale interesse; la buona gestione dell’ordinario (inquinamento, rifiuti, risorse, spazio), attraverso politiche settoriali coordinate che assumano i principi della best practice e della best available technology; l’adozione di un’ottica di sostenibilità: amministrare, curare i sistemi costieri per gli usi e i benefici futuri; l’adozione del principio di precauzione; l’adozione del principio di partecipazione ed equità: coinvolgere gli attori nel processo di gestione per costruire consenso basato su educazione, negoziazione, compromesso.

[7] Nella seconda metà degli anni Novanta si contavano circa 180 piani/programmi ispirati dai principi dell’ICZM (150 di stati, 11 appartenenti all’European Estuaries Program, 12 all’UNEP con i Regional Seas Programs, 7 non UNEP per i mari chiusi).

[8] In questa direzione, un importante ruolo è svolto dai così detti progetti pilota e dai practical exercise. Il problema chiave, infatti, è quello di raggiungere risultati in un tempo ragionevolmente breve. ICZM è un processo lungo e complesso: per questo motivo è importante che vi siano risultati concreti nel breve periodo allo scopo di superare le opposizioni, costruire capacità organizzativa, mostrare che il programma merita supporto politico e finanziario ai vari livelli.

[9] In generale, si ritiene comunque che la maggior parte delle iniziative non approdino alla fase dell’implementazione, mentre per quelle in via di implementazione non si hanno informazioni veritiere sugli esiti. ‘Integrated coastal zone management is the ideal arrangement for which everybody strives, but few attain’ (Clayton, O’Riordan, 1996, p. 161).

[10] Si tratta di un particolare modo di vedere i problemi della gestione ambientale che ha la sua origine nella metà degli anni Ottanta, che riflette originariamente l’emergere di un movimento neoconservatore anche in tema di politica ambientale, e che trova poi, dopo il 1992 e il vertice di Rio, nuovi stimoli dal dibattito sullo sviluppo sostenibile.

[11] L’idea di fondo è che nessun attore debba sentirsi minacciato dal piano di gestione.

[12] La visione è definita come una metafora, un discorso retorico, una descrizione narrativa  che veicola una situazione ideale in termini di condizioni economiche, sociali e ambientali che la comunità vuole – e ritiene di poter – raggiungere in un orizzonte temporale compreso tra i 10 e i 30 anni. La visione è espressa da ‘discorsi retorici’ e immagini (anche slogan) che tutti gli stakeholder possono condividere e appoggiare. La visione deve fornire le linee di un futuro desiderabile da tutti; è considerata come una ‘bussola’ che mostra la direzione, soprattutto in quelle fasi in cui il raggiungimento dei singoli obiettivi può generare conflitto. Il piano è anche promozionale, come stile, nel senso che cerca di sottolineare il dinamismo, le potenzialità delle risorse presenti, il ruolo della comunità locale nei processi di sviluppo (Kidd, 1995). L’idea di fondo è che un processo di gestione integrata ha un orizzonte temporale di diversi decenni; quindi, nella fase di avvio, è importante promuovere una visione che può essere sottoscritta dal numero maggiore di gruppi e la cui efficacia può essere testata nel tempo. Soprattutto nella fase di avvio, infatti, lo snodo critico è non alienarsi la fiducia degli stakeholder, che devono sentirsi parte di un processo e non strettamente vincolati dallo stesso (i vincoli sono già posti dalle varie normative di settore).

[13] Si prenda, a titolo di esempio, il caso veneziano: è evidente come una questione spinosa come l’estromissione del traffico petrolifero dalla laguna (previsto dalla legge speciale per Venezia del 1973) possa trovare la sua sistemazione più appropriata solo nel contesto di un piano nazionale delle coste che valuti la distribuzione e la logistica del petrolio (comprese le eventuali misure di redistribuzione e compensazione) all’intera scala alto adriatica.