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Sebastiano Tusa - Parchi ed itinerari archeologici subacquei

                Nel breve volgere della storia dell’archeologia subacquea come scienza, cioè dagli anni ’50 del secolo appena finito, ad oggi, la parola “recupero” è stata a lungo intrinsecamente legata ad ogni pratica che comportasse lo studio, l’analisi e la fruizione di beni, relitti e architetture sommerse. Fare archeologia subacquea significava, quasi automaticamente, recupero. Ciò rispondeva ad un costume diffuso fino all’avvento delle moderne tecniche di immersione che hanno “democratizzato” l’andare per mare e nel mare allargando in curva esponenziale il numero di coloro che possono agevolmente raggiungere le profondità marine, seppur limitate. Un tempo l’elemento mare era visto come qualcosa di diverso: il c.d. “sesto continente” dove soltanto figure marzianoidi di verniana memoria potevano penetrare.          

                Oggi la situazione è notevolmente mutata per le motivazioni addotte, ma anche per una sviluppata sensibilità verso le testimonianze del passato che, sia in terra che in mare, si tende a non decontestualizzare. Una visione squisitamente antropologica del bene archeologico, agevolata ed amplificata da una lettura processualista dei fenomeni storico-archeologici, ci impone di non scomporre i contesti che la storia ed il tempo ci hanno preservato uniti. Pertanto è costume e mentalità diffusa tentare di lasciare il più possibile i materiali nei contesti originari laddove ciò sia possibile per inesistenza di problemi di tutela e conservazione.

                Il mare non sfugge a questa logica. Anzi la recente edizione del trattato UNESCO per la protezione del patrimonio culturale sommerso pone, nell’annesso, la specifica raccomandazione di evitare il più possibile il prelievo di oggetti dal fondo del mare. Il mare viene visto, pertanto, come un grande museo diffuso ove le testimonianze dell’uomo del passato convivono e vanno lette senza alterarne il contesto originario di giacitura.

                E’ proprio in virtù di questi principi che da anni abbiamo intrapreso in Sicilia il costume di lasciare i reperti in mare. La prima parziale esperienza avvenne ad Ustica con la creazione del primo itinerario archeologico subacqueo italiano che, per la verità era anche un museo poiché raccoglieva oggetti altrove recuperati. Da quell’intervento si è fatta molta strada talché oggi molteplici sono gli itinerari archeologici subacquei già realizzati (a Pantelleria Gadir, Punta Limarsi, Punta Tre Pietre, a Levanzo Capo Grosso) ed in corso di realizzazione.

                Laddove si creano le condizioni per una sicura permanenza dei reperti al fondo del mare abbiamo la possibilità di riunirli in un itinerario o in parco che permetta al visitatore di vedere gli oggetti direttamente nella loro originaria giacitura che mantiene intatte le connotazioni date dai millenni di immobilità e dalle originarie sistemazioni date dall’uomo del tempo. Il dato contestuale assume, quindi, il valore di ulteriore messaggio culturale per aiutare l’odierno visitatore a comprendere al meglio valenze, funzioni, vicissitudini e interazioni tra gli oggetti archeologici.

                Stiamo anche sperimentando una ulteriore possibilità per ampliare la quantità dei potenziali fruitori delle testimonianze del passato nel loro contesto originario piazzando un sistema di telecamere subacquee collegate con postazioni fisse di telecontrollo e telefruizione museale. In tal modo non soltanto coloro ( e sono ormai tanti) che possono immergersi negli abissi, ma anche chi questa possibilità non la possiede o non desidera averla, avrà modo di godere del grande valore dell’originale giacitura dei reperti.

                Purtroppo soltanto adesso questa sensibile attenzione e rispetto verso il contesto archeologico subacqueo ha fatto breccia nella mentalità degli operatori del settore bloccando inutili recuperi che altro non producono che l’ammasso di materiale archeologico muto nei già traboccanti magazzini dei nostri musei. Ciò significa che abbiamo perso molto di questi valori nel corso dei decenni passati. Tuttavia il nostro tentativo è che quello che ancora resiste al fondo del nostro mare possa diventare parte integrante di un vasto ed articolato museo diffuso che accorpi valenze naturalistiche, paesaggistiche, antropologiche e storico-archeologiche utili alla comprensione della storia del rapporto tra uomo e mare e ad un sano sviluppo turistico-culturale.

 

Sebastiano Tusa