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S. Focardi - Uso di bioindicatori per valutare il rischio per gli organismi marini determinato dall

Negli ultimi decenni l’uomo ha incrementato in maniera esponenziale l’uso e il numero di prodotti chimici sintetici utilizzati nell’agricoltura e nell’industria; in alcuni casi sono stati letteralmente gettati nell’ambienta migliaia e talvolta milioni di tonnellate di principi attivi. Molti di questi xenobiotici (sostanze estranee ai sistemi viventi) sono tossici ed anche fortemente persistenti (tendono cioè ad essere presenti per lungo tempo nell’ambiente), e ciò li rende estremamente pericoloso per gli ecosistemi, soprattutto quelli marini. Fra i composti più pericolosi vi sono sicuramente gli idrocarburi clorurati, una “famiglia” alla quale appartengono pesticidi come il DDT e sostanze tecnologiche come i policlorobifenili (PCB) e le diossine (TCDD). Una delle caratteristiche principali di queste sostanze è il basso grado di degradazione, che fa sì che queste sostanze si ritrovino nell’ambiente anche decine di anni dopo che è cessato il loro utilizzo.

Generalmente questi xenobiotici, prima o poi, raggiungono l’ambiente marino, dove penetrano nelle catene alimentari e, con fenomeni di bioaccumulo e di biomagnificazione, raggiungono concentrazioni molto elevate negli organismi predatori.

Per poter valutare il livello di contaminazione dell’ambiente marino da parte di queste sostanze, ed il rischio per le comunità di questo ecosistema i ricercatori utilizzano metodi che comportano lo studio di organismi, chiamati per questo bioindicatori. Questi metodi sono in grado di fornire indicazioni sia su scala locale che globale, e possono essere utilizzati per prevenire fenomeni che potrebbero provocare gravi danni alle popolazioni e alla comunità. E’ quindi estremamente importante considerare il ruolo del mare anche dal punto di vista ecotossicologico, in quanto gli idrocarburi clorurati sono in grado di bioaccumulare e causare effetti tossici in molti organismi marini.

Gli uccelli e i mammiferi posti ai livelli più elevati della catena trofica sono sicuramente le specie a maggior rischio, come dimostrano alcuni fenomeni che si sono verificati nell’ultimo decennio. Si può citare le disfunzioni immunologiche, riproduttive e teratogeniche rilevate nelle rondini di mare e nei cormorani della regione dei Grandi Laghi americani (Kubiak et al., 1989), nelle foche del Mare del Nord e del Mar Baltico (Heide-Jorgensen et al., 1992) e nei beluga dell’estuario di Saint Lawrence (Martineau et al.,1987; Tanabe et al.,1994). Nel 1990 decine di migliaia di delfini della specie Stenella coeruleoalba morirono nel Mediterraneo a causa di un morbillivirus (Borrell e Aguilar,1992); nel 1991 la stessa infezione colpì mortalmente molti esemplari di tursiope (Tursiops truncatus) nello Ionio (Bortolotto et al.,1992). Nei tessuti degli animali morti sono state ritrovate elevate concentrazioni di PCB (Aguilar e Raga,1993 ; Kannan et al.,1993; Corsolini et al.,1995). Anche se la morte era dovuta alla infezione da morbillivirus, si ritiene questa infezione fosse stata amplificata dal forte abbassamento delle difese immunitarie causato dalla contaminazione di questi animali con sostanze fortemente tossiche, come alcuni congeneri dei PCB (Corsolini et al.,1995).

Ritornando quindi all’utilizzo di organismi bioindicatore per valutare lo stato di contaminazione dell’ambiente marino, occorre dire che, a seconda delle necessità, è possibile utilizzare sia organismi statici come i bivalvi o altri invertebrati, sia organismi fortemente mobili come alcuni uccelli o mammiferi migratori. Gli studi ad esempio effettuati sui tessuti e sulle uova della Berta Maggiore nel Mediterraneo (Renzoni et al., 1986) avevano dimostrato come l’area comprendente le Isole Baleari fosse fortemente contaminata da PCB; alcuni anni più tardi in quella zona si è verificata la moria di delfini sopra citata.

Elevati di livelli di contaminazione nei bioindicatori sono stati generalmente ritrovati nelle aree dove vi era il sospetto di un forte inquinamento ad opera delle attività umane; gli effetti tossici si sono invece manifestati non solo in relazione a fenomeni di contaminazione puntiforme, ma in dipendenza di altri aspetti quali la persistenza dei residui e la ecologia degli organismi interessati. La maggior parte dei risultati indica ad esempio che i Cetacei sono particolarmente suscettibili all’accumulo di sostanze contaminanti nei loro tessuti e agli effetti che questi possono causare. Questo sembra dovuto principalmente a tre fattori.

I Cetacei hanno generalmente grandi riserve di grasso nel quale si vanno a concentrare questi contaminanti. Gli idrocarburi clorurati ed altri contaminanti persistenti, sono infatti lipofili, e ciò li rende affini al tessuto adiposo ed ai tessuti ed organi ricchi in lipidi. Una volta penetrati nell’adipe questi contaminanti sono difficili ad eliminare; in particolari condizioni in cui il grasso viene mobilizzato (ad esempio per produrre energia) essi vanno in circolo nell’organismo e possono così essere causa di danni a vari livelli.

Il secondo fattore riguarda il ciclo riproduttivo. Il bioaccumulo è ben osservabile nei maschi, ma è generalmente assente nelle femmine di molte specie, che rivelano una diminuzione dei contaminanti nell’organismo dopo la maturità (Subramanian et al., 1988). Questo fenomeno è da attribuire al rilascio di queste sostanze nel latte, che è caratterizzato da un elevato contenuto lipidico. Tanabe et al. (1988) hanno ad esempio rilevato come una femmina di delfino striato ceda il 60% circa del sua contenuto di contaminanti al figlio durante l’allattamento. Questo sottopone le popolazioni di queste specie a gravi rischi anche indipendentemente da una esposizione diretta.

Infine occorre considerare che il danno provocato da questi contaminanti all’organismo dipende anche dalle capacità detossificanti degli organismi stessi. Il confronto tra le attività detossificanti di vari organismi ha messo infatti in evidenza come i Cetacei trattengano nel loro organismo molti composti, compresi quelli più facilmente degradabili come i PCB a basso contenuto di cloro (Tanabe et al., 1988). Questi studi suggeriscono che i Cetacei sono privi di alcuni sistemi detossificanti e ciò giustificherebbe l’accumulo eccessivo di contaminanti (Watanabe et al., 1989.

I tre fattori sopra indicati determinerebbero quindi un forte bioaccumulo nei Cetacei, sottoponendo questi animali ad elevato rischio dal punto di vista ecotossicologico (Borrell et al., 1994).

Poiché quindi i composti organoclorurati vengono ancora utilizzati in molte aree del pianeta, occorre ampliare il loro studio dal punto di vista ecotossicologico. Attualmente vi sono vari studi soprattutto nell’emisfero Nord del nostro pianeta. Gli studi sui pesci di alcune zone costiere ci indicano ad esempio che si è spesso verificato un declino della contaminazione da parte di questi composti, in dipendenza del loro cessato uso (Schmitt et al., 1990; Thomann et al., 1990; Loganathan e Kannan, 1995). Analogamente altri studi su restrizioni locali all’uso hanno dimotrato che ciò a portato ad un miglioramento delle condizioni nelle aree (Andersson et al., 1988; Focardi et al., 1988; Marsili e Focardi, 1996).

In conclusione, si può ritenere l’ambiente marino come il deposito finale di molte sostanze chimiche persistenti e non degradabili prodotte dall’uomo. E’ ormai evidente che una grande quantità di PCB che sono stati immessi nell’ambiente terrestre si trova ora nei sedimenti costieri e più in generale nell’ambiente marino. (Tatsukawa e Tanabe, 1990). E’ ben documentato il ruolo dei corpi d’acqua fredda (aree polari) come serbatoio per i composti più volatili come il lindano, e vi sono evidenze che dimostrano come le concentrazioni degli idrocarburi clorurati nelle acque dell’Artico e dell’Antartide siano in aumento (Larsson e Okla, 1989; Fuoco et al., 1996; Corsolini e Focardi, 2000). E’ stato dimostrato come il Pacifico nell’emisfero settentrionale riceva la maggior deposizione di DDT e lindano, mentre una maggiore quantità di PCB si depositi nell’Atlantico settentrionale (Preston, 1992). E’ quindi estremamente importante, per la salvaguardia della vita marina, un approfondimento di questi studi, basati sull’impiego degli organismi come sentinelle in grado di far comprendere all’uomo il reale stato di salute dell’ambiente marino.

Silvano Focardi

Dipartimento di Scienze Ambientali, Università degli Studi di Siena

Via delle Cerchia, 3 - 53100 Siena, Italy

focardi@unisi.it

 

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