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Paolo Sequi - Massimiliano Valentini  - Liviana Leita - I rifiuti dell’acquacoltura

Come ogni attività umana, anche l’acquacoltura può produrre rifiuti. Il primo aspetto ad essere stato studiato è stato probabilmente quello degli allevamenti ittici dei fiumi e dei torrenti di collina e di montagna, dai quali fuoriescono quantità sensibili di elementi prodotti dal catabolismo degli organismi allevati, oltre a quantità spesso rilevanti di sostanze alimentari ad essi somministrate dai loro allevatori. Mezzo secolo fa i primi studi su corsi d’acqua friulani furono condotti da Renzo Candussio, Maria Visintini Romanin e collaboratori dell’allora Stazione Chimico Agraria Sperimentale di Udine, poi Sezione di Gorizia dell’Istituto Sperimentale per la Nutrizione delle Piante.

Per qualche tempo un’altra forma di inquinamento delle acque ha riguardato, come si può capire, solo gli allevamenti nei quali l’ambiente utilizzato era relativamente ridotto rispetto alle necessità di ricambio idrico. Esempi tipici nel nostro Paese si sono avuti nelle lagune; piace ricordare quella di Orbetello, a contatto con il mare ma con vie di comunicazione inadeguate per assicurare lo scambio di acque sufficiente a consentire che gli organismi allevati si potessero trovare a loro agio e che le acque stesse della laguna si mantenessero in condizioni tali da evitare fenomeni di eutrofizzazione. Agli agronomi non piace certo ricordare che nel caso specifico i fenomeni sono stati attribuiti a dilavamento dai suoli circostanti, che benché non molto coltivati sono stati assoggettati alle norme più rigide della direttiva nitrati.

Un altro aspetto che può davvero meravigliare è che per i rifiuti dell’acquacoltura, della pesca in generale e delle stesse acque non esistono ancora regole sufficientemente chiare per affrontare la loro esistenza: per individuare queste categorie di rifiuti non risultano fissati neppure i codici CER. Anche in mare, a titolo di esempio, perfino rifiuti che la popolazione costiera conosce e teme per la loro grande abbondanza, come quelli di alghe e piante acquatiche, sono catalogati in modo diremmo assurdo. La Posidonia spiaggiata non diviene altro che un rifiuto solido urbano. Meno male che questo rifiuto oggi è per lo meno abbastanza facilmente compostabile dopo le recenti modifiche della legge nazionale sui fertilizzanti.

La cattura dei pesci di allevamento ha superato ormai quella libera a livello mondiale, e quelli riportati non sono che pochi esempi dei rifiuti la cui presenza deve essere affrontata: si pensi solo alla necessità di trattare opportunamente i residui di pesci morti che possono abbondare in molti allevamenti. Anche l’evoluzione della legislazione europea, con i nuovi approcci legislativi alla Pianificazione dello Spazio Marittimo, impone ai politici e ai tecnici del settore che venga riservata una grande attenzione al problema. In Italia abbiamo molti recenti studi in ambito ISPRA che devono essere opportunamente divulgati anche in altri settori di ricerca.

Noi pensiamo che molte ricerche possano essere riservate agli organismi che si nutrono di rifiuti dei pesci d’allevamento: è di grande interesse a puro titolo d’esempio una recente ricerca sulla possibile utilizzazione delle ostriche da perla per questi scopi. Ma anche un programma sulle condizioni di salute dei pesci in condizione di stress da inquinamento, che noi abbiamo intenzione di iniziare per mezzo della risonanza magnetica nucleare, e del collegamento di queste condizioni di stress alla composizione delle acque nelle quali gli organismi acquatici sono allevati, potrà essere utile se non risolutivo per collegare esigenze ambientali, biologiche e di mercato.

Paolo Sequi - Massimiliano Valentini  - Liviana Leita

CRA – RPS Centro di Ricerca per lo studio delle Relazioni fra Pianta e Suolo - Roma