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Antonio Di Natale - Un approccio serio per una pesca sostenibile

La pesca sostenibile non è uno slogan da usare per dipingere di verde o blu qualche attività. E’ un impegno serio che, da un lato, può dare una più elevata possibilità di avere una risorsa nel tempo, ma dall’altro comporta una serie di comportamenti e procedure che siano atte ad assicurare che i dati necessari siano messi a disposizione e che le strategia di gestione siano idonee.

L’uomo si nutre di pesci ed altri esseri acquatici sin dalla preistoria, quando gli uomini raccoglitori iniziarono a raccoglierli sulle coste, prima ancora di tentare di catturarli con arpioni e ami. L’uomo è un essere naturalmente onnivoro e, quindi, le specie commestibili che vivono nelle acque fanno parte della sua dieta alimentare da sempre, salvo quei casi in cui qualcuno decida di non nutrirsene per motivi filosofici.

Attualmente preleviamo tantissime risorse alimentari (pesci, molluschi, crostacei e altro) dagli Oceani: la FAO ci dice che, nel 2019, abbiamo pescato ufficialmente circa 178 milioni di tonnellate di prodotti alieutici, ai quali bisogna aggiungere una stima di ulteriori 26 milioni di tonnellate di pescato illegale o non dichiarato (IUU). Il totale, quindi è di oltre 204 milioni di tonnellate, una quantità elevata, alla quale occorre sommare gli scarti di pesca, che sono comunque risorse sottratte all’Oceano. Sempre in base alla FAO, le catture di prodotti alieutico sono aumentate di circa il 20% negli ultimi 10 anni.

E’ molto difficile sostenere che queste catture siano sostenibili, ma è molto chiaro che, invece, dovremmo gestire le risorse alieutiche in modo durevole e sostenibile, non fosse altro che per il nostro stesso egoistico interesse. Ma non è così.

Uno dei problemi più grandi è che gestiamo o tentiamo di gestire le risorse alieutiche senza conoscerle veramente. Non conosciamo quasi mai i meccanismi che stanno alla base dei cicli naturali di abbondanza o diminuzione di alcune specie: le alternanze di abbondanza acciughe/sardine o gambero rosso/gambero viola non sono mai state chiarite. Non conosciamo quasi mai le complesse catene alimentari che regolano l’esistenza di ogni specie, sia in quanto preda che in quanto predatore.

Nel primo caso, la ridotta o nulla comprensione dei cicli naturali di abbondanza/mancanza delle specie in un ambiente aperto come l’Oceano crea un serio problema nella valutazione dei risultati dei modelli previsionali normalmente adottati in ambito nazionale e internazionale per gestire le risorse. I risultati possono essere influenzati (negativamente o positivamente) dal momento del ciclo naturale in cui si agisce.

Nel secondo caso, è forse ancora peggio, perché solitamente abbiamo una comprensione molto ridotta e parziale dell’intera catena trofica nella quale si colloca la specie che dovremmo tentare di gestire. Talvolta, l’indebolimento di un altro anello della catena trofica può avere effetti pesanti sulla disponibilità della specie oggetto del nostro studio, così come può dare lo stesso effetto un aumento dei predatori naturali. Raccogliamo pochi dati e li comprendiamo ancora meno.

E poi, solitamente non consideriamo gli effetti combinati dell’ambiente sulle specie: l’inquinamento influenza in modo rilevante sia la salute delle varie specie alieutiche che la loro presenza (molte specie lasciano, quando possono, le acque più inquinate, per zone più salubri). Tra l’altro, l’inquinamento da sostanze persistenti (quali, ad esempio, metalli pesanti, PCBs e radionuclidi) poi lo ritroviamo nei nostri corpi, per bioaccumulo. Ma ci sono anche gli effetti combinati dei cambi climatici e di alcune azioni dell’uomo. I cambi climatici ci stanno mostrando tutto il loro potenziale, con il riscaldamento delle acque marine e con l’estremizzazione dei fenomeni. Il riscaldamento climatico da un lato può favorire una più ampia distribuzione e la riproduzione di alcune specie (come il tonno rosso), ma dall’altro crea problemi alle tante specie meno adattabili e già questi casi richiedono monitoraggi specifici per essere definiti e compresi. I cambi climatici, inoltre, causano l’alterazione delle correnti marine a larga scala. Poi, l’azione dell’uomo sta portando ad una progressiva acidificazione delle acque marine, che potrebbe causare problemi molto seri alle tante specie che necessitano di poter fissare grandi quantità di calcio per sviluppare conchiglie o strutture coralline. A questi problemi sommiamo il progressivo aumento della presenza di specie non autoctone o comunque non naturalmente tipiche di alcuni mari, alcune volte trasportate casualmente, altre introdotte per motivi commerciali. La loro diffusione e il loro ingresso nelle catene trofiche naturali vengono anche condizionate dai cambi climatici. E, ancora una volta, i dati sono molto scarsi, abbattendo la nostra capacità di comprensione del mare.

Ma quanto conosciamo effettivamente del mare, che copre il 71% circa della superficie del globo? Molto poco. Per quanto riguarda i fondali, l’uomo è riuscito a mappare grossolanamente gran parte di fondi oceanici, ma la mappatura a buona definizione è limitata a poche aree, quelle con interessi attuali di tipo commerciale o strategico. Gran parte dei fondali sono ancora poco conosciuti.

Poi, si stima che sia stata descritta una percentuale minima degli organismi marini, stimata intorno all’8% (ma senza sapere il totale, anche questa percentuale è piuttosto inattendibile). Ma, praticamente, diciamo che semplicemente non conosciamo circa il 92% delle comunità e delle specie che abitano l’Oceano. Solo in quest’ambito, diciamo che la nostra capacità di comprensione dei sistemi marini si porta dietro un errore superiore al 90%.

A tutto questo aggiungiamo l’approccio gestionale. Da molti decenni, la scienza alieutica previsionale è stata “pilotata” dai biologi marini e dagli esperti della parte più settentrionale del globo, che sono stati in grado di sviluppare modelli matematici sofisticatissimi per la gestione della pesca, solitamente per singole specie. Quando si lavora per poche specie e moltissimi stock, l’approccio può superficialmente apparire buono, ma quando, come nel Mediterraneo, si hanno circa 180 specie utilizzate dalla pesca (suddivise anch’esse in tanti stock) i limiti dell’approccio sono molto più evidenti. Come si diceva prima, non è molto utile guardare un solo anello della catena e si rischiano errori fondamentali.

Da tanti anni la FAO e anche la Commissione Europea hanno fatto pressioni per adottare un approccio molto più ragionevole e più solido scientificamente: l’approccio ecosistemico, che considera il contesto nel quale ogni singola specie vive e dal quale dipende. E’ evidente come questo approccio debba utilizzare una mole cospicua di conoscenze e di dati e molto spesso queste due componenti mancano. Per raccogliere i dati servono molta ricerca e molti specialisti. In passato, grazie ai Piani Triennali e poi ai primi anni del DCR, l’Italia si era dotata di un insieme di strutture diffuse lungo le coste, che avevano anche un buon numero di ricercatori, con una esperienza crescente e un buon ventaglio di conoscenze scientifiche. Poi, i cronici ritardi nei pagamenti da parte dell’Amministrazione e una serie di approcci diversi nel settore ricerca hanno causato un crollo nelle conoscenze e una dispersione drammatica delle professionalità crete in oltre 15 anni di sforzi comuni. Si, ci sono sempre nuove leve, ma recuperare le conoscenze con è né ovvio né facile. Solitamente, la FAO consigliava di attribuire alla ricerca scientifica settoriale almeno il 2% del valore delle risorse alieutiche pescate. Non credo che si sia a quel livello di investimento, malgrado l’impegno della CE prima con il DCR e poi con il DCF e con vari programmi di ricerca.

Il risultato, purtroppo, è che si continuano a gestire le risorse per singoli stock, con pochissime eccezioni. La gestione così fatta viene dichiarata sostenibile, ma non lo è affatto, perché, sostanzialmente, non conosciamo il contesto, che può ovviamente determinare il successo o l’insuccesso di un tentativo di gestione. Praticamente, è come se si acquistasse un biglietto della lotteria del mare, ma quando si perde, perdiamo tutti insieme al mare.

Nei fatti, malgrado tutti i dati siano da considerare incerti, la FAO considera che circa il 30% degli stock alieutici sia sovra pescato, ma non è che gli altri stiano molto bene, tranne forse alcuni. Nel Mediterraneo, circa il 39% degli stock sono considerati sovra pescati e circa il 13% non sta benissimo. Ovviamente, anche i pareri degli esperti non sono unanimi.

Un’idea della solidità degli approcci si ha guardando i dati ISTAT 2020, che riportano una produzione italiana dichiarata allo sbarco 88419 tonnellate nel 2017, ma la stessa pubblicazione riporta che, in base ai dati del DCF, la produzione alieutica italiana è di 161.160 tonnellate, sempre nel 2017! In teoria, il valore della produzione alieutica dovrebbe aggirarsi intorno ai 903 milioni di Euro. Ma tutte queste cifre non comprendono alcuna stima della catture illegali o non dichiarate (IUU). Considerando che prima indagine statistica nazionale sulla pesca (PESTAT) fu condotta dal CNR nel 1982, come si possono accettare discrepanze come quelle evidenziate dopo ben 39 anni di “progressi”? E con quali basi si fa la gestione delle specie alieutiche?

Per tentare di migliorare la situazione, stavolta è entrato in campo l’ONU che, attraverso il UN Team of Specialists on Sustainable Fisheries ha recuperato i risultati di un progetto della Commissione Europea per adattarlo e proporlo come standard in tutti i Paesi del mondo. Si tratta di FLUX, un sistema di trasmissione di dati di cattura in tempo reale, sia alle autorità nazionali che alle RFMO competenti. Il sistema è semplificato al massimo e già ci sono diverse flotte che lo stanno testando: in area NAFO, in Brasile e in Indonesia. Se fosse adottato come minimo comune standard da tutti i Paesi, certamente inizieremmo ad avere almeno dati più completi e confrontabili.

Ma la sostenibilità integrata non è solo data dalla gestione sostenibile delle risorse alieutiche: essa deve comprendere anche la sfera economica, sociale e ambientale, una complessità che necessità di dati ulteriori. Inoltre, la sostenibilità integrata è un esercizio difficile, che ha assoluto bisogno di strategie e scelte politiche ben basate. E qui, di nuovo, non ci siamo. Sono oltre 20 anni che sentiamo parlare di sostenibilità e, negli ultimi 10 anni, la sostenibilità è diventata una parola di moda, usata ovunque e spesso a sproposito, declamata e vantata da tutti, ma effettivamente applicata in pochissimi casi. Però noi e l’Oceano ne abbiamo assoluto bisogno, se veramente si volesse avere la durabilità delle risorse nel tempo.

L’importanza della sostenibilità è fuori discussione: viene stimato che oltre 3 miliardi di persone basito la propria vista e la propria alimentazione sulle risorse alieutiche, mentre oltre 260 milioni di persone sono direttamente impiegate nel settore, generando oltre 274 miliardi di euro di PIL. Una gestione sostenibile probabilmente creerebbe ulteriori 50 miliardi di euro di valore e probabilmente la produzione potrebbe variare e incrementarsi.

Non gestire le risorse alieutiche in modo sostenibile, possibilmente con una sostenibilità integrata, è semplicemente stupido e incosciente. Dobbiamo cambiare la rotta e remare tutti nella stessa direzione, nell’interesse di noi umani, degli organismi marini, dell’Oceano e dell’intero Pianeta. Ricordiamoci che abbiamo un solo Pianeta, che l’Oceano copre il 71% della superficie e che non abbiamo un Pianeta di riserva. Ce lo chiede l’ONU, ma ce lo chiede questo maltrattato Pianeta.