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Amedeo Postiglione - La Tutela dell’ambiente marino nel quadro del diritto internazionale e comunitario

Tutela dell’ambiente marino nella normative internazionale

L’attenzione della Comunità  internazionale ai problemi ecologici ed in particolare all’ambiente marino è relativamente recente ed ancora più recente è, per taluni aspetti, lo stesso concetto di “ambiente” almeno nel suo attuale significato.

La prima interessante formalizzazione di un principio generale in materia, anche se non di carattere prettamente normativo, risale agli anni quaranta e precisamente ad una sentenza arbitrale dell’11 marzo 1941, nell’ambito di una controversia tra Usa e Canada relativa alla “Fonderia di Trail”.

Il “criterio guida” che per la prima volta viene sancito in maniera inequivocabile riguarda il fenomeno dell’inquinamento transfrontaliero: “ciascuno Stato nell’utilizzazione del proprio territorio ha l’obbligo di non arrecare danno al territorio di altro Stato” .

Solo a partire dagli anni cinquanta, a livello internazionale inizia ad affermarsi la tendenza ad emanare una disciplina multilaterale di deciso contrasto al fenomeno dell’inquinamento grazie, peraltro, ad una crescente collaborazione tra gli Stati, in particolare nel settore del trasporto marittimo di idrocarburi. Proprio in questi anni vengono stipulate le prime convenzioni internazionali, alcune a carattere settoriale limitate cioè alle varie cause dell’inquinamento marino, altre a  carattere regionale, ossia riferite a singoli bacini.

Tra le convenzioni del primo tipo particolare rilievo assumono: la Convenzione di Londra del 12.5.1954 (OIL. POL. ’54) sulla prevenzione dell’inquinamento delle acque marine da idrocarburi , il Trattato di Mosca   5.8.1963, sul divieto degli esperimenti di armi nucleari nell’atmosfera, nello spazio esterno e subacquei (entrato in vigore nel 1975 ed attualmente in vigore tra più di cento Stati, tra cui l’Italia), le due Convenzioni di Bruxelles: la prima del 29.11.1969 col relativo Protocollo del 19.11.1976 e la seconda del 15.2.1972, rispettivamente sull’ intervento in alto mare in caso di incidente che possa comportare un inquinamento marino da idrocarburi e sulla responsabilità civile per danni conseguenti ad inquinamento da olii minerali (entrambe entrate in vigore nel 1975 e alle quali partecipa l’Italia), la Convenzione di Londra del 13.11.1972, sulla prevenzione dell’inquinamento marino da scarico di rifiuti e di altre sostanze (convenzione cosiddetta sul dumping, entrata in vigore nel ’75 ed attualmente in vigore tra circa quaranta Stati, tra cui l’Italia), la Convenzione di Londra del 2.11.1973 per la prevenzione dell’inquinamento proveniente dalle navi (MARPOL), successivamente modificata nel 1978 mediante due protocolli aggiuntivi del 19.11.1976 e del 7.2.1978 , la Convenzione di Città del Messico, Londra, Mosca e Washington   del 29.12.1972 (modificata a Londra il 12.10.1978) sulla prevenzione dell’inquinamento marino causato dallo scarico di rifiuti ed altre materie.

Tra le più importanti  convenzioni a carattere regionale è appena il caso di ricordare l’ Accordo di Bonn   del 9.6.1969 (attualmente in vigore tra sette Stai e la stessa Comunità Europea), concernente la cooperazione in materia di lotta contro l’inquinamento da idrocarburi delle acque del Mare del Nord, l’Accordo di Copenaghen  del 16.9.1971 sulla cooperazione per l’adozione di misure contro l’inquinamento marino da idrocarburi, la Convenzione di Oslo del 15.2.1972 , sulla prevenzione dell’inquinamento marino da scarico da navi ed aerei (entrata in vigore tra più di dieci Stati nel ’74), l’Accordo di Belgrado del 14.2.1974, sulla collaborazione per la salvaguardia dagli inquinamenti delle acque del mare Adriatico e delle zone costiere tra l’Italia e la Jugoslavia (entrato in vigore nel ’77), la convenzione di Helsinki del 22.3.1974, sulla protezione dell’ambiente marino dell’area del mar Baltico e la Convenzione di Barcellona del 16.2.1976, sulla protezione del Mediterraneo contro l’inquinamento ed i successivi protocolli.

Queste convenzioni, ben lungi dall’inquadrare il problema dell’inquinamento e della protezione dell’ambiente marino nella sua globalità, individuano nello Stato della bandiera della nave colpevole dell’inquinamento e nello Stato costiero danneggiato gli unici interlocutori di un rapporto meramente contrattualistico e privatistico tanto più forte quanto più l’inquinamento interessa un’area vicina alla costa e, viceversa, tanto più  tenue man mano che se ne discosta: in questa prospettiva l’inquinamento è più o meno grave a seconda del danno che ne discende per lo Stato costiero.

A queste convenzioni, definite di prima generazione e tipiche del ventennio a cavallo tra il 1950 e il 1972, seguono quelle di seconda generazione.

Il catastrofico incidente avvenuto nel 1967 nel Canale della Manica, alla petroliera Torrey Canyon, e quello del 1978 dell’Amoco Cadiz nel mare del Nord, ripropongono con forza il problema della protezione dell’ambiente marino contro l’inquinamento, dando un impulso senza precedenti alla produzione di norme sia da parte della Comunità internazionale sia dei singoli Stati.

Tale proliferazione normativa ha sostituito nel contesto internazionale al principio transfrontaliero della sentenza arbitrale del 1941, quello secondo cui l’inquinamento marino non è più danno al singolo Stato danneggiato ma a tutta la comunità internazionale. Così, nella Dichiarazione di Stoccolma del 1972,  scaturita dalla Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente, si afferma che gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare le loro risorse secondo la loro politica ambientale ma hanno, altresì, il dovere di fare in modo che le attività esercitate entro i limiti della loro giurisdizione, o sotto il loro controllo, non causino danni all’ambiente in altri Stati.

Analogamente nella Dichiarazione finale della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo,  tenutosi a Rio de Janeiro nel 1992, si introduce una stretta correlazione tra il problema della protezione dell’ambiente e quello dello sviluppo sostenibile, mentre nel Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati  adottato dalla Commissione di Diritto Internazionale delle Nazioni Unite, all’art.19, si afferma che una seria violazione degli obblighi internazionali di importanza essenziale per la protezione e la salvaguardia dell’ambiente umano, costituisce un “crimine internazionale”. In tale nuovo contesto vengono sanciti obblighi per tutti gli Stati destinatari non più limitatamente al mare territoriale o alla zona contigua ma anche in altre aree, compreso l’alto mare. Superata la prospettiva privatistica e contrattualistica tipica della precedente normativa in materia di inquinamento marino, si afferma, dunque, il carattere pubblicistico dei poteri degli Stati.

Questa nuova tendenza, emersa in tutte le convenzioni internazionali degli anni Settanta, culmina nella Terza Conferenza delle Nazioni Unite sul diritto del mare e viene codificata nella parte XII della Convenzione di Montego Bay  del 10.12.1982 . Siamo ormai su una posizione molto lontana da quella adottata a Ginevra nel 1958, dove non si riscontrava alcuna norma di carattere generale in materia, ma solo qualche mero riferimento all’inquinamento da idrocarburi e sostanze radioattive nonché cenni sull’esplorazione e lo sfruttamento dei fondali marini nella codificazione relativa all’alto mare.

La convenzione di Montego Bay , che dedica alla questione l’intera parte XII distinta in ben 11 sezioni e 45 articoli, già dall’art.1 § 4 della parte introduttiva – in analogia all’art. 2, lett. A, della Convenzione di Barcellona del 1976 – definisce inquinamento qualunque introduzione diretta o indiretta, da parte dell’uomo, di sostanze o di energia nell’ambiente marino, ivi compresi gli estuari, quando questa ha o può avere effetti nocivi quali: danni alle risorse biologiche, alla fauna e alla flora marine, rischi per la salute dell’uomo, intralci alle attività marittime compresa la pesca e gli altri usi legittimi del mare, alterazione della qualità dell’acqua di mare dal punto di vista della sua utilizzazione e del degrado dei valori di gradevolezza.

In tale prospettiva è previsto un ruolo fondamentale, oltre le 200 miglia dalla costa, di una nuova istituzione: “l’Autorità Internazionale dei fondali marini” e, fino a 200 miglia, dello Stato costiero che non agisce più come Stato danneggiato bensì in nome e per conto della comunità internazionale in base al principio dei poteri delegati (già adottato altrove nella convenzione medesima).

All’interesse della comunità internazionale verso la prevenzione dall’inquinamento corrisponde, per la prima volta, una responsabilità parimenti internazionale a carico degli Stati costieri e/o di bandiera della nave che, nella loro attività, provochino danni all’ambiente marino.

L’EVOLUZIONE DELLA DISCIPLINA COMUNITARIA

Prima dalla revisione del Trattato di Roma con l’Atto Unico Europeo del 17.2.1986, la tutela dell’ambiente era materia che, almeno formalmente, esulava dalle competenze esplicitamente attribuite alla Comunità. In effetti in nessuno dei tre trattati istitutivi della C.E.C.A., dell’EURATOM e della C.E.E. risultavano originariamente specifiche attribuzioni alla Comunità in materia di politica ambientale (né mai compariva la parola “ambiente”).

I primi interventi in questo settore furono compiuti interpretando le enunciazioni del Preambolo e gli articoli 2, 100 e 235 del Trattato stesso, laddove si indicava tra i compiti della Comunità quello di migliorare le condizioni di vita e di occupazione dei popoli dei Paesi membri. In tale quadro la salvaguardia dell’ambiente veniva gradualmente considerata un fattore essenziale nello sviluppo socio-economico capace, come tale, di condizionare l’organizzazione ed il funzionamento del mercato comune.

Dopo la Conferenza della Nazioni Unite di Stoccolma svoltasi nel 1972 sul tema “ sviluppo e ambiente” i Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri, riuniti a Parigi, confermarono la volontà di attuare una politica ambientale a livello comunitario.

Nel 1973 il Consiglio dei Ministri della Comunità promosse l’adozione di una serie di programmi d’azione, di durata quadriennale, che costituivano le linee guida per il Consiglio e la Commissione sotto il profilo normativo.

Passato al vaglio del parlamento europeo, il 19 luglio 1973 veniva approvato a Bruxelles il Primo programma d’azione per l’Ambiente (1973-1977) contenente gli obiettivi fondamentali della politica comunitaria in materia ed una descrizione delle azioni da intraprendere dei vari settori di intervento.

Il programma si articolava su cinque punti fondamentale:

  1. la migliore protezione ecologica consiste nell’evitare sin dall’inizio inquinamenti ed altri inconvenienti, anziché combattere successivamente gli effetti;
  2. in tutti i processi tecnici di programmazione si deve tener subito conto delle eventuali ripercussioni sull’ambiente;
  3. la protezione dell’ambiente è una questione che riguarda tutti i cittadini della Comunità, occorre perciò sensibilizzare l’opinione pubblica a tutti i livelli in modo costante e continuo;
  1. la lotta contro l’inquinamento deve essere avviata al livello locale, regionale, nazionale, comunitario ed internazionale, a seconda della natura specifica dell’inquinamento e/o degli spazi geografici da proteggere;
  2. le azioni i materia di politica ambientale non devono compromettere né ostacolare quanto è già stato fatto o potrà essere fatto a livello nazionale.

Al primo programma d’azione ne sono poi seguiti altri quattro: il 2°  e il 3°, rispettivamente per i quadrienni 1977-1981 e 1982-1986, entrambi costituenti un prolungamento ed un rafforzamento del primo, il 4° per il periodo 1987-1992, che si propone di attuare la normativa comunitaria in materia di ambiente, consolidando gli obiettivi già raggiunti, ed infine il 5°, per il periodo 1993-2000, che cerca di salvaguardare la qualità dell’ambiente e le risorse naturali, tenendo conto delle diversità delle situazioni nelle singole regioni della Comunità.

Dall’esame di tali programmi si nota che il carattere prevalentemente repressivo della politica comunitaria degli anni precedenti va, a poco a poco affievolendosi  a favore di un atteggiamento preventivo, nella considerazione che occorre garantire “in primis” la disponibilità delle risorse naturali quali beni di rilievo comunitario. Basandosi sul concetto di “ambiente” definito sia come  “insieme delle risorse naturali” danneggiate o eccessivamente sfruttate dallo sviluppo economico e sociale sia come “qualità delle condizioni di vita”, la strategia globale proseguita dalla Comunità si ispira a tre principi fondamentali:

  • Il principio di livello appropriato di intervento, tendente alla ricerca delle azioni più opportune in rapporto alla dimensione geografica o politica del fenomeno condizionante la qualità dell’ambiente naturale. A tal fine nel 3° Programma viene elaborato addirittura un particolare strumento di politica ambientale (già sperimentati in U.S.A.) diretto ad introdurre nella normativa di ciascuno Stato membro principi comuni per la valutazione preventiva delle conseguenze di ogni intervento strutturale sul territorio: trattasi della “procedura di valutazione dell’impatto ambientale (V.I.A.)”, prevista dalla direttiva C.E.E. 27.6.1985, n. 337, il cui obiettivo è quello di integrare i dati dell’ambiente naturale con la pianificazione territoriale e con lo sviluppo economico. L’art. 3 della direttiva stabilisce, infatti, che la “valutazione dell’impatto ambientale individua, descrive e valuta, in modo appropriato, per ciascun caso particolare” gli effetti diretti ed indiretti di un progetto sui diversi elementi dell’ecosistema (uomo, flora, fauna, aria, suolo ed acqua).
  • Il principio della conservazione delle risorse naturali, volto a garantire un uso razionale dell’ambiente per conservarne gli equilibri;
  • Il principio del ripristino (“chi inquina paga”), di fatto già presente in tutte le legislazioni degli stati membri e finalizzato al riconoscimento delle responsabilità per coloro che esercitano attività inquinanti. 

Oggetto della politica comunitaria è dunque il binomio: risorse naturali da preservare dalla degradazione ed attività socio-economiche che comportano alterazioni, talvolta irreversibili, delle risorse stesse . Al riguardo la Comunità vuole assicurare un ordinato mutamento dell’ambiente che ne consenta la conservazione in quanto patrimonio.

Con l’entrata in vigore dell’atto Unico Europeo (A.U.E.) avvenuta il 1° luglio 1978, nella riconferma dell’obiettivo l’art. 18 dell’A.U.E. offre alla Comunità gli strumenti necessari per l’adozione dei provvedimenti ritenuti più idonei in materia: si riconosce la relazione tra l’ambiente e il commercio e si afferma che qualora la Commissione proponga una legge relativa alla salute, alla sicurezza dei consumatori, o alla protezione ambientale, questa deve prendere come base il livello più alto di protezione. In ogni caso gli stati membri hanno il potere e la facoltà di adottare, se necessario, anche misure più restrittive.

L’art. 25 inserisce nella terza parte del Trattato un titolo VII, intitolato “AMBIENTE” dedicato interamente alla materia. I tre nuovi articoli, 130 R, 130 S e 130 T (successivamente modificati dal Trattato di Maastricht), fissano i principi fondamentali che la Comunità si propone di perseguire, ribadendo i due criteri cardine del “meglio prevenire che correggere i danni provocati dall’inquinamento” e del “chi inquina paga”. Viene specificato, inoltre, che l’azione della Comunità nella materia è finalizzata a : “salvaguardare, proteggere e migliorare la qualità dell’ambiente; contribuire alla protezione  della salute umana; garantire una utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali” (art. 130 R).

La competenza comunitaria resta, tuttavia, sussidiaria rispetto a quella degli stati membri, permanendo la norma che la Comunità possa agire soltanto se gli scopi da raggiungere siano meglio conseguibili a livello comunitario piuttosto che in ambito nazionale. Una ulteriore novità introdotta dall’A.U.E. consiste nel riconoscimento del potere alle istituzioni comunitarie di adottare provvedimenti in materia ambientale anche mediante regolamenti e non solo attraverso direttive. L’innovazione non è di poco conto stante la diretta applicazione dei regolamenti comunitari negli stati membri senza alcuna mediazione legislativa.

Come accennato i trattati comunitari, ed in particolare gli art. 130 R, 130 S e 130 T del trattato C.E.E., sono stati modificati dal Trattato dell’Unione Europea, firmato a Maastricht il 7.2.1992.

Nell’elevare la protezione dell’ambiente a principio fondamentale della Comunità Europea, il trattato pone come obiettivo prioritario la promozione di una crescita sostenibile e rispettosa della natura (art. 2) ed inserisce tra le azioni dell’unione un impegno politico nel settore ambientale (art. 3 K). In tale quadro viene specificato che si dovrà mirare ad un elevato livello di protezione, promovendo interventi sul piano internazionale per affrontare i problemi ambientali che si pongono a livello regionale, ovvero su scala planetaria.

Oltre ai principi di prevenzione, di correzione alla fonte e del “chi inquina paga” che l’A.U.E. aveva ribadito e confermato, il Trattato di Maastricht introduce anche quello della “precauzione” secondo cui, qualora vi siano minacce di grave o irreversibile danno ambientale, la mancanza di una piena certezza scientifica non potrà giustificare il rinvio di misure efficaci per prevenire il degrado naturale. Tale concetto, individuato come criterio autonomi, risente del principio 15 della Dichiarazione sull’ambiente e lo sviluppo della Conferenza delle Nazioni di Rio de Janeiro del 13 e 14 giugno 1992, laddove si prevede un largo ricorso al corrispondente “approccio precauzionale”.

Sotto il profilo normativo il trattato di Maastricht semplifica le procedure di adozione di alcuni interventi nel settore ambientale: ogni decisione al riguardo viene adottata dal Consiglio dei Ministri a maggioranza qualificata in cooperazione col Parlamento europeo ( art. 130 S) , ad eccezione delle prescrizioni di natura fiscale, delle scelte nazionali in materia energetica e di alcune misure riguardanti l’assetto del territorio (compresa la gestione delle risorse acquee), che restano soggette alla regola dell’unanimità.

Con trattato di Maastricht, inoltre, le esigenze di protezione ambientale non appaiono più genericamente come una “componete” delle altre politiche comunitarie ma debbono essere integrate nella definizione e nella attuazione delle stesse. A livello comunitario l’ambiente assurge quindi ad un ruolo autonomo anche nell’economia.

Successivamente alla firma del Trattato di Maastricht, la Commissione ha presentato la proposta di risoluzione del Consiglio delle Comunità concernente il Quinto Programma politico e d’azione intitolato “Verso uno sviluppo sostenibile”. Il periodo coperto da questo Programma, che si inquadra tra l’A.U.E. e il trattato sull’Unione, va, come detto, dal 1993 (completamento del mercato unico con abbattimento delle frontiere nazionali) fino al 2000. Preceduto dagli altri quattro programmi che si definivano solamente “d’azione”, il quinto Programma già nel titolo contiene un elemento di novità: l’aggettivo “politico” che indica subito una gestione dell’ambiente più coraggiosa, incentrata sulla nuova filosofia dello “sviluppo sostenibile”. 

I risultati dei precedenti programmi, in verità, si erano concretizzati in oltre duecento direttive comunitarie inerenti tutti i settori delle attività umane: dall’industria all’agricoltura, dai trasporti all’energia, dalla conservazione delle risorse naturali alla protezione della flora e della fauna. Più di duecento “leggi”, quindi, che gli Stati membri hanno dovuto incorporare nelle rispettive legislazioni interne con maggiori o minori ritardi, con differenti livelli di attuazione e diversi risultati, in genere abbastanza limitati.

Il quinto Programma prende in considerazione i settori dell’energia (se ne prevede entro il 2010 un aumento della domanda pari al 25%), dei trasporti (nel 2000 è previsto un aumento del tasso di motorizzazione del 25% e del chilometraggio percorso del 17%), dell’agricoltura (ove è imperativo il contenimento dei fertilizzanti il cui utilizzo dal 1979 al 1988 ha avuto un aumento del 63%), dei rifiuti (di cui è assolutamente da contenere la produzione, favorendone il riciclaggio), dell’acqua (occorre limitare il prelievo di acqua potabile che dal 1970 al 1985 è aumentato del 35%), del turismo (entro il 2025 nel solo bacino del Mediterraneo è previsto un aumento del 60% delle attività turistiche rispetto al 1990).

Viene indicata una nuova strategia da seguire per raggiungere uno sviluppo sostenibile. Con tale espressione, già formulata dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo in un rapporto del 1987 (più noto come Rapporto BRUNDTLAND) e posta alla base della Conferenza delle Nazioni Unite di Rio de Janeiro del giugno 1992, ci si riferisce ad “una politica e ad una strategia per perseguire lo sviluppo economico e sociale che non rechi danno all’ambiente e alle risorse naturali dalle quali dipendono il proseguimento dell’attività umana e lo sviluppo futuro”. Si tratta di non compromettere, insomma, la possibilità delle generazioni future di soddisfare i loro bisogni, preservando l’equilibrio generale e la natura intesa come “capitale” da investire e non depauperare.

A tal fine occorre razionalizzare la produzione e il consumo dell’energia e modificare l’atteggiamento in tal senso; gli attuali stereotipi sociali ed economici di consumo e di comportamento collettivo sono, infatti, i veri responsabili dei principali danni all’ambiente.

Il programma propone al riguardo diversi strumenti:

  • legislativi, divieto di arrecare danni all’ambiente;
  • economici, basati sulle leggi di mercato es.: incentivazione economiche e fiscali per le produzioni ed il consumo “puliti”;
  • “orizzontali”, consistenti nell’arricchimento delle banche dati, nella ricerca scientifica e nello sviluppo tecnologico.

Ciò che emerge con chiarezza è l’idea secondo cui gli obiettivi a cui si tende possono essere conseguiti non tanto e non più con azioni a livello comunitario, quanto con misure coordinate che comportino condivisione di responsabilità a tutti i livelli, politici (comunitario, nazionale, regionale e locale) e sociali (imprese, cittadini, consumatori).

A tale scopo la Commissione ha istituito:

  • un “forum” consultivo, dove sono rappresentate le pubbliche amministrazioni, le imprese, i sindacati e i consumatori;
  • una rete di responsabili dell’applicazione pratica della legislazione sull’ambiente, composta da rappresentanti delle autorità nazionali competenti e della Commissione;
  • un gruppo incaricato di sorvegliare l’applicazione della politica dell’ambiente, composto da rappresentanti, composto da rappresentanti della Commissione e dai direttori dei dicasteri interessati.

Nel VI Programma di Azioni per l’ambiente della UE, denominato “Ambiente 2010: il nostro futuro la nostra scelta”  , così si stabilisce in tema di ambiente marino:

Malgrado la sua importanza per la catena alimentare, a fini ricreativi e per il clima, la struttura e il funzionamento dell’ambiente marino sono tuttora in gran parte sconosciuti; restano molto limitate anche le nostre conoscenze e previsioni dell’impatto umano sugli ecosistemi marino. Eppure la nostra società provoca un enorme impatto sull’ambiente marino e la sua biodiversità, soprattutto a causa dell’inquinamento di fiumi, coste e mari da fonti industriali e urbane. A ciò si aggiungono i versamenti in mare delle petroliere, gli incidenti navali e lo sfruttamento intensivo delle zone costiere. Anche l’introduzione di specie non indigene (alloctone) in ambienti marini diversi e fonte di stress ambientale.

Tutto questo ha provocato un crescente grado di sollecitazione e inquinamento dei nostri mari, con effetti negativi sugli habitat e la vita marini.

Quasi tutti i mari regionali denunciano un calo del pescato e molte popolazioni ittiche  sono sopra utilizzate. E’ necessario ridurre la pressione esercitata dalla pesca, perché così facendo si avranno effetti positivi sugli stock ittici e sulle popolazioni di mammiferi, rettili e uccelli marini nonché sugli habitat marini.La politica comune della pesca sarà aggiornata nel 2002 e le problematiche ambientali non connesse all’uso sostenibile delle popolazioni sfruttate saranno integrate nell’analisi e nelle eventuali raccomandazioni per il futuro.

Tuttavia la tutela dell’ambiente marino e della sua biodiversità va ben al di là dello sfruttamento sostenibile delle risorse marine rinnovabili e presuppone una strategia integrata capace di contrastare l’inquinamento e il degrado degli habitat sottomarini e delle coste. La Comunità ha bisogno di azioni concertate di identificazione e quantificazione dei problemi, per poi porre in essere misure atte ad affrontare le molteplici pressioni esercitate dalle diverse attività economiche dell’uomo:

  • aumento demografico ed urbanizzazione delle aree costiere;
  • eccessivo tenore di azoto e fosforo indotto dalle attività a terra e dall’inquinamento atmosferico, con possibile conseguente eutrofizzazione;
  • sviluppo del turismo a terra non rispondente a criteri di sostenibilità;
  • inquinamento generato da incidenti, soprattutto di petroliere e chimichiere;
  • inquinamento generato dalle attività navali, ad esempio per la pulizia delle cisterne delle petroliere;
  • inquinamento di fiumi e porti;
  • problemi di cablaggi e condotte;
  • inquinamento prodotto dal rilascio di sostanze radioattive legato a pratiche che comportano un possibile rischio di radiazioni ionizzanti;
  • scarico in mare di fanghi e sedimenti dei porti;
  • pressione esercitata dalla pesca, che minaccia la redditività a lungo termine degli stock ittici e di altre componenti biotiche.

Un’adeguata e completa applicazione della direttiva sulle acque reflue urbane e della direttiva sui nitrati segnerà un importante passo verso la riduzione dell’eutrofizzazione, che costituisce una seria minaccia per l’ambiente marino.

Azioni

  • Strategia tematica sul suolo.
  • Inserimento della tutela e del risanamento dei paesaggi nelle politiche agricole e regionali.
  • Estensione della rete Natura 2000 all’ambiente marino.
  • Promozione di regimi credibili di certificazione di boschi e foreste.
  • Ulteriore sviluppo della silvicoltura e della sana gestione del patrimonio boschivo ai sensi dei piani di sviluppo rurale.
  • Ulteriore opera di integrazione dell’ambiente nelle politiche in materia di agricoltura pesca e silvicoltura.
  • Riesame della politica comune della pesca.
  • Sviluppo di una strategia di protezione marina.
  • Attuazione della gestione integrata delle zone costiere.

LA SALVAGUARDIA DEL BACINO DEL MEDITERRANEO 

L’attenzione prestata dalla comunità internazionale alla protezione del mar Mediterraneo è andata via via crescendo dalla fine degli anni 60, in considerazione delle peculiarità di questo bacino. Il Mediterraneo è, infatti, un mare “relativamente chiuso” (occorrono circa 80 anni per un ricambio completo delle sue acque), interessato da molteplici fonti di inquinamento sia diretto che indiretto e da un apporto non rilevante di acqua dolce.

La normativa di tutela, oltre che ad una considerevole serie di direttive della Comunità Europea a carattere settoriale, è riconducibile essenzialmente alla menzionata convenzione di Barcellona del 1976 che rappresenta il primo caso, in ordine cronologico, di un trattato per la protezione di un mare regionale promosso dall’ O.N.U. tramite l’UNEP (Agency United Nations Environmental Program).

In realtà il cosiddetto “sistema di Barcellona” è attualmente costituito da una serie di trattati tra cui:

  1. a) La Convenzione per la protezione del mare Mediterraneo dall’inquinamento (Barcellona 1976,

      emendata nel 1995);

  1. b) il Protocollo sulla prevenzione dell’inquinamento del mare Mediterraneo da immersione da navi

      ed aeromobili, con i successivi 3 allegati (Barcellona 1976, emendato nel 1995);

  1. c) un nuovo Protocollo sulle aree specialmente protette e la diversità biologica nel Mediterraneo

      (Barcellona 1995), destinato a sostituire il precedente analogo protocollo di Ginevra del 1982;

  1. d) il Protocollo sulla cooperazione nella lotta all’inquinamento del mare Mediterraneo da

      idrocarburi ed altre sostanze nocive in caso di situazione critica, con un allegato (Barcellona

      1976);

  1. e) il Protocollo sulla protezione del mare Mediterraneo dall’inquinamento da fonti terrestri (Atene

      1980) in relazione al quale sono stati adottati emendamenti nella Conferenza di Siracusa del  

      marzo 1996;

  1. f) il Protocollo sull’inquinamento derivante dall’esplorazione, dallo sfruttamento della piattaforma

      continentale, del fondo marino e del sottosuolo  (Madrid 1994). 

Altre iniziative bilaterali o trilaterali si sono inoltre sviluppate con la partecipazione dell’Italia nello spirito della convenzione, tra questa il citato Accordo Italo-Iugoslavo sulla cooperazione per la salvaguardia del mare Adriatico e delle zone costiere e l’Accordo Italo-Franco-Monegasco contro l’inquinamento del Golfo del Leone e del Tirreno Settentrionale.

Nel suo testo emendato, si è visto, la convenzione contiene idee e principi emersi anche nella conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992. Sono, infatti, più volte richiamati i criteri dello sviluppo sostenibile, il principio precauzionale, il richiamo alle migliori tecniche disponibili, alle migliori pratiche ambientali ed alla promozione di tecnologie di produzione pulite. Al fine di realizzare gli obiettivi previsti, le parti (art. 4 par. 2) si impegnano a tenere in pieno conto le raccomandazioni della Commissione Mediterranea sullo sviluppo sostenibile, menzionata nel Piano d’Azione per il Mediterraneo (P.A.M.) anch’esso previsto e fortemente voluto dall’O.N.U. e dalla C.E.E..

Di particolare rilievo è la disposizione introdotta in materia di informazione e partecipazione del pubblico (art. 15) che obbliga le parti a dare accesso alle notizie relative alla condizione dell’ambiente, comprese le attività che possono recarvi pregiudizio e a consentire alla collettività di partecipare alle procedure “di presa delle decisioni”.

Specifiche innovazioni sono poi introdotte dai vari protocolli attuativi. In particolare, il Protocollo sull’immersione, così come emendato, estende la sua applicazione alle attività di incinerimento a mare dei rifiuti vietandole espressamente (art. 7). Ciò spiega il nuovo titolo dello strumento che diviene “Protocollo per la prevenzione e l’eliminazione dell’inquinamento del mare Mediterraneo da immersione da navi e aeromobili o da incinerazioni in mare”. In secondo luogo, il protocollo sancisce definitivamente il principio del divieto di “dumping” di rifiuti od altre materie, con l’eccezione di cinque categorie di sostanze espressamente indicate nell’art. 4 par. 2. E’ così rovesciata la struttura del precedente testo che consentiva di immergere tutto ciò che non fosse espressamente vietato (c.d. lista nera) e fatto salvo l’obbligo di una specifica autorizzazione per altre sostanze espressamente enumerate (c.d. lista grigia).

Molto diverso nel contenuto è anche il “protocollo relativo alle aree specialmente protette ed alla diversità biologica nel Mediterraneo”. Il nuovo testo ha esteso la sfera di applicazione del precedente strumento che riguardava le sole acque territoriali e non comprendeva l’alto mare. Ciò era particolarmente necessario per tutelare quelle specie marine (ad es. i mammiferi) che per la loro natura migratoria non rispettano i confini artificiali imposti dall’uomo. La possibilità di istituire anche oltre le acque territoriali aree specialmente protette ha comportato, tuttavia, la previsione di complesse clausole “di non pregiudizio”, che ricordano quelle tipiche degli strumenti del c.d. sistema antartico. Da un lato, si stabilisce che la cooperazione in materia ambientale non deve in alcun modo pregiudicare questioni giuridiche di diversa natura, dall’altro tali questioni, di soluzione complessa, non possono ritardare l’adozione di misure necessarie per la preservazione dell’equilibrio ambientale del Mediterraneo.

Il protocollo prevede l’istituzione di una “Lista di aree specialmente protette di importanza mediterranea” senza escludere la possibilità degli Stati di creare nuove zone protette. Tale lista può includere siti che: “sono importanti per conservare i componenti della diversità biologica nel Mediterraneo; contengono ecosistemi specifici……. O habitat di specie in pericolo; sono di speciale interesse sul piano scientifico, estetico, culturale o educativo” (art.8 par. 2). Le procedure per l’inclusione nella lista sono indicate nell’art. 9 e richiedono, per le aree situate in tutto o in parte nell’alto mare, una decisione per “consensus” (vale a dire senza alcuna opposizione) da parte dei Paesi contraenti. Realizzata l’inclusone le parti si impegnano a riconoscere la particolare importanza dell’area per il Mediterraneo e a non autorizzare né intraprendere attività in contrasto con gli obiettivi per i quali essa è stata stabilita. Le misure previste per l’area divengono così obbligatorie per tutti i contraenti che si impegnano anche ad adottare misure per assicurare che nessuno intraprenda attività contrarie ai principi del protocollo (art. 28 par. 2). Quest’ultima disposizione sembra diretta a fronteggiare eventuali comportamenti di Stati terzi che non intendano cooperare per l’attuazione del protocollo.

Tra le iniziative promosse dalla Comunità Europea in applicazione della Convenzione di Barcellona ed in particolare del protocollo relativo al contrasto dell’inquinamento da idrocarburi, occorre menzionare la “Carta di Nicosia” scaturita dalla Conferenza dei paesi rivieraschi del Mediterraneo tenutasi a Cipro nel 1991. Il documento propone l’ambizioso progetto di risanare il bacino entro il 2025, coinvolgendo tutti gli Stati dell’area secondo una strategia comune basata sulla gestione integrata delle zone costiere, delle acque, dell’energia, sulla sorveglianza degli ecosistemi, il controllo del traffico marittimo e l’intensificazione dello scambio di esperienze. In particolare si prevede che entro 1994 tutti i porti mediterranei dovranno dotarsi di installazioni per il recupero ed il trattamento delle acque di zavorra e di sentina (entro il 1992 almeno 20), cento città mediterranee dovranno munirsi di impianti per il trattamento dei reflui urbani (la Comunità potrà finanziare il 25% di tali infrastrutture) e dovranno essere installate almeno 25 discariche con relativi impianti di  trattamento dei rifiuti pericolosi (i c.d. tossici e nocivi).

Necessita, infine, accennare alla direttiva 93/75/CEE del 13/9/1993 ed alla successiva proposta di direttiva del Consiglio, presentata il 17/12/1993, relativa alla creazione di un sistema europeo di notifica delle navi nelle zone marittime degli Stati membri della Comunità. Riscontrando un sensibile aumento del traffico marittimo di merci pericolose o inquinanti, con un aggravio dei rischi per la sicurezza dell’ambiente marino e costiero, la Comunità ha ritenuto essenziale l’adozione di misure volte a rafforzare le comunicazioni e le informazioni tra gli Stati membri su detto traffico per rendere così più rapide ed efficaci le eventuali operazioni di prevenzione e repressione degli inquinamenti. In particolare, con la direttiva 93/75/CEE è stato sancito che per le navi dirette a porti marittimi della Comunità e che trasportano merci pericolose e/o inquinanti, debbono fornire ai paesi comunitari le informazioni disponibili al momento della partenza. Ciò costituisce un’importante fase evolutiva verso un sistema di notifica più completo volto ad includere anche le navi in transito.

 

LO SVILUPPO SOSTENIBILE : I MARI A RISCHIO

 

Dalla fine del secondo conflitto mondiale, correlativamente agli elevati tassi di crescita che hanno interessato le principali economie industriali, si è assistito ad un progressivo incremento del degrado ambientale, maggiormente evidente in talune aree geografiche. In tale contesto l’inquinamento marino ha costituito oggetto di particolare attenzione dell’opinione pubblica mondiale anche per la vastità del fenomeno manifestatosi a tutte le latitudini. Recenti studi hanno dimostrato che nessun bacino ne è di fatto immune, ivi compresi i mari antartici, dove sono state individuate tracce di D.D.T. ed altri pesticidi nel grasso di foche e pinguini.

Alcuni mari sono, tuttavia, maggiormente esposti al fenomeno a cause di particolari fattori antropici, geografici, climatici e, non ultimo, politici. Si è già accennato che l’area mediterranea è fra quelle più a rischio e non solo perché nei suoi porti transitano più di 300 milioni di tonnellate all’anno di greggio, ma anche a causa dei 200 milioni di abitanti dei paesi rivieraschi che determinano un inquinamento domestico di circa 336 tonnellate annue di liquami per chilometro di costa. A ciò si aggiunga che gli apporti idrici delle precipitazioni non compensano le “uscite” dovute all’evaporazione cosicché ne risulta un deficit idrico pari a 1923 km3/anno, compensato dall’apporto di acque fredde e meno salate provenienti dall’Atlantico. In conseguenza di questo meccanismo il Mediterraneo si impoverisce di sali nutritivi (e questo spiega la sua bassa produttività in materia di pesca rispetto all’Atlantico) ma, nel contempo, perde parte dei suoi inquinanti con evidenti vantaggi per il suo complesso equilibrio.

Particolarmente critica è l’area sud orientale dove il Mediterraneo, attraverso lo stretto dei Dardanelli, riceve le acque del Mar Nero. Essendo un bacino pressoché chiuso che riceve ingenti apporti di acque dolci da importanti fiumi europei ed Asiatici, il Mar Nero costituisce una sorta di “bomba ad orologeria” sotto il profilo ecologico. Negli ultimi trenta anni questa particolare area ambientale ha subito notevoli danni, trasformandosi da ecosistema ad alta biodiversità con una notevole produttività biologica, ad ecosistema a bassa biodiversità, caratterizzato da un’ittiofauna  estremamente limitata e dominata nella catena alimentare principalmente da “predatori gelatinosi” (meduse). Ciò è dovuto in gran parte alla disastrosa situazione tecnologica dei paesi dell’ex blocco socialista, a cui si somma l’incontrollata utilizzazione di prodotti chimici nell’agricoltura che per il dilavamento dei terreni confluiscono nel bacino.

A causa dell’immissione delle acque dei fiumi Dniester, Dnieper e Danubio, la zona nord ovest del Mar Nero è particolarmente sensibile al fenomeno dell’eutrofizzazione. Soprattutto il Danubio, che nel suo corso raccoglie i rifiuti prodotti dalle attività umane in otto paesi europei, costituisce con un bacino idrografico di circa 817.000 km2 il maggior veicolo di inquinamento. Approfondite ricerche hanno dimostrato che in questi ultimi 25 anni l’apporto di nitrati e fosforo proveniente dal fiume è aumentato di sette volte con conseguenze facilmente intuibili sull’ecosistema.

Un’altra particolare fonte di inquinamento che interessa l’area è quella dovuta alle modificazioni dell’orografia dei corsi d’acqua imputabili ad interventi di macroingegneria a dir poco discutibili. L’equilibrio ideologico del Mar Nero è infatti particolarmente delicato: nei primi duecento metri di profondità sono stratificate le acque dissalate che si mantengono separate dalle acque profonde, nelle quali l’ossigeno scende rapidamente a zero. Al di sotto di questa quota e sino ad una profondità di 2000 metri si estende una colonna d’acqua sovrassatura di idrogeno solforato e priva di qualsiasi forma di vita ad eccezione delle comunità di batteri solforiduttori.

Se le condizioni idrofisiche del Mar Nero dovessero cambiare e la separazione tra i due strati svanisse, ad es. a causa di un aumento della salinità, le masse d’acqua profonde potrebbero salire in superficie liberando un’enorme quantità di idrogeno solforato con effetti paragonabili a quelli di una guerra chimica con l’uso di gas nervini. Mutamenti della salinità, il cui livello è garantito dall’apporto del Mediterraneo, potrebbero verificarsi a lungo termine dal minor afflusso di acque del Nilo causato dalla diga di Assuan; ben più gravi pericoli erano, tuttavia, insiti nel progetto sovietico di sbarramento del Don.

Non molto migliori sono le condizioni del Mar Baltico. Esteso su una superficie di circa 370.000 km2, il Baltico è un bacino salmastro che riceve un flusso di acque dolci valutabile tra i 440 e i 470 km3 con uguale input di acque salate. Il suo equilibrio ideologico è caratterizzato da una circolazione termoalina che favorisce la stagnazione delle acque con creazione di fosse di decantazione e lo sviluppo di zone anossiche. Il basso ricambio è causa di una stratificazione costante delle acque che esalta i fenomeni eutrofici, con vere e proprie crisi degli stocks di biomasse, aggravate dagli apporti inquinanti.

Alcuni dati possono aiutare a comprendere la gravità della situazione: il flusso di liquami domestici ammonta a circa 2.300.000 m3 al giorno, ciò determina l’immissione di 98.000 tonnellate annue di fosforo e nitrati. Altrettanto rilevante è l’inquinamento industriale cagionato dallo scarico di grandi quantità di metalli pesanti, soprattutto lungo le coste russe e finlandesi. Ancora non pienamente conosciuta è, infine, l’entità dell’inquinamento radioattivo dovuto al “fall out” di precipitazioni atmosferiche, contaminate da esplosioni nucleari programmate (esperimenti militari) o da eventi catastrofici (Chernobyl). A ciò si aggiunga il dumping di scorie, talvolta autorizzato ma più spesso gestito dalla criminalità organizzata.

La presenza sulle sponde del bacino di una decina di Paesi profondamente diversi nelle loro strutture economiche e sociali, complica enormemente la ricerca di soluzioni tecniche che, pur avendo una forte valenza politica, non possono più essere procrastinate.

CONCLUSIONI 

Dall’esame fin qui condotto emerge con chiarezza che la problematica della tutela degli ecosistemi marini e dell’ambiente in generale non può essere disgiunta da una attenta analisi dei modelli di sviluppo sinora adottati.

Già negli anni 70 l’opinione pubblica dei paesi maggiormente avanzati aveva preso coscienza di tale correlazione. Ne è la riprova la vasta eco prodotta da una ricerca di un istituto scientifico del Massachusetts, pubblicata nel 1972 su iniziativa di un’associazione romana, nella quale si ipotizzava che se i tassi di sviluppo produttivo e di incremento della popolazione mondiale si fossero mantenuti inalterati, l’umanità avrebbe raggiunto i propri limiti di crescita in un arco temporale di 100 anni.

L’opera suscitò accese polemiche nel mondo economico, politico e scientifico, polarizzando la disputa tra i sostenitori dello sviluppo industriale ad ogni costo e gli ecologisti più oltranzisti. Alcuni individuavano nel libro un tentativo di restaurazione nell’economia dei principi Maltusiani, altri vedevano nell’opera un malcelato “tentativo imperialista” di sottomissione dei paesi più arretrati da parte delle nazioni a capitalismo avanzato, in nome della salvezza della natura.

Indipendentemente da ogni disquisizione teorica, nello stesso periodo i Capi di Stato Europei riuniti a Parigi ribadivano il concetto, già espresso con la Convenzione di Stoccolma, di realizzare tra le diverse componenti sociali una mediazione capace di coniugare le esigenze della crescita economica con la preservazione della natura. In quest’ottica occorreva realizzare un nuovo tipo di progresso che consentisse anche alle generazioni future di soddisfare i loro prevedibili bisogni. Necessitava garantire, in altri termini, uno “sviluppo sostenibile” come affermato dal primo Ministro norvegese, signora BRUNDTLAND, nel suo celebre, omonimo rapporto.

Purtroppo tali solenni dichiarazioni di intenti, enfatizzate nella Conferenza di Rio, non hanno prodotto comportamenti pienamente concludenti nei soggetti a ciò deputati. L’esperienza dimostra che, molte zone del pianeta continuano a versare in un grave stato di degrado. Anche nel nostro paese, nonostante la proliferazione legislativa degli anni ottanta, permangono notevoli problemi la cui soluzione non può essere ricercata soltanto sul piano penalistico o comunque repressivo.

Al riguardo la normativa esistente è fin troppo puntuale; basti pesare alla disciplina degli scarichi in mare che vieta alle navi italiane di versare idrocarburi od altre sostanze nocive non soltanto nelle acque territoriali, ma anche oltre tale limite, prevedendo per il comandante, proprietario o armatore la pena detentiva da due mesi a due anni o l’ammenda da £500.000 a £ 10.000.000, oltre alle pene accessorie ed al risarcimento del danno (art. 16 della l. 31 dicembre 1982, n°979).

Contrariamente a quanto si crede, anche l’attività di controllo dell’ambiente marino è da ritenersi soddisfacente. Lungo le nostre coste esiste una capillare rete di monitoraggio, gestita operativamente dal Corpo delle Capitanerie di Porto in base alla Convenzione di Amburgo del 1979, che consente, anche con il concorso di altre forze di polizia, una rilevante azione di contrasto del fenomeno dell’inquinamento.

        I rimedi vanno ricercati altrove, occorre in primo luogo:

  • una rinnovata consapevolezza culturale che orienti i consumatori verso prodotti riciclabili e meno inquinanti;
  • una nuova politica di gestione dei rifiuti che si evolva da una strategia di smaltimento in discarica ad una logica di ottimizzazione delle tecnologie di recupero;
  • una adeguata politica economica di sostegno della ricerca scientifica e di incentivazione fiscale delle produzioni pulite;
  • una capillare informazione, obiettiva ed accessibile, che radichi definitivamente nella società una cultura ed una coscienza ambientale.

Il rapporto tra ambiente, legislazione, istituzioni ed economia è ormai ad un passaggio delicato e nel contempo decisivo. Si tratta di far avanzare insieme ogni settore e con essi il destino dell’intera umanità, nella consapevolezza che non è più accettabile alcuna contropartita per il degrado della natura.

Amedeo Postiglione - Giudice Corte Suprema di  Cassazione    

Direttore ICEF (International Court of the Environment Foundation)